Articolo aggiornato al 12/05/2022

Dall’Outbound all’affermazione degli experienced disruptors

Cos’è l’Inbound Marketing? A livello operativo l’Inbound marketing consiste nella creazione di contenuti di alta qualità, caratterizzati da parole chiave e frasi mirate individuate per massimizzare la SEO (ottimizzazione dei motori di ricerca) e attrarre visitatori e lead. L’Inbound marketing popola con questi contenuti strategici attraverso pagine web e blog. Visitatori e lead, una volta che sono stati adeguatamente “ingaggiati”, possono fornire a loro volta, attraverso la condivisione sui social media o “l’atterraggio” su una landing page, informazioni di contatto utili per promozioni, follow-up e, infine, vendita. In questo modo i lead si convertiranno in clienti.

Tra gli strumenti utilizzati in ambito Inbound per catturare l’interesse dei possibili consumatori e avviare con loro relazioni reciproche:

  • Blog: uno standard elevato nella qualità delle informazioni e una saturazione ottimale delle parole chiave sono fondamentali;
  • Parole chiave: identificare e impiegare le migliori parole chiave e frasi chiave per rappresentare il servizio o il prodotto di un’azienda;
  • SEO: importante per quanto riguarda i link in una pagina (merito e posizionamento), in-page, in titoli, intestazioni, meta-tag, alt tag, immagini, ecc.;
  • Social Media: indispensabili per condividere contenuti, attivare il passaparola, sviluppare relazioni e legami duraturi;
  • Sito Web: navigabile in modo intuitivo e accessibile; organizzato nelle sue sezioni come un efficace “hub” per i lead in entrata.

Questo per quanto riguarda l’aspetto più pragmatico.

 

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Cos’è l’Inbound Marketing: metodologia aziendale consolidata 

Cos’è l’Inbound Marketing dal punto di vista teorico? L’Inbound marketing è una metodologia aziendale che attira i clienti creando contenuti ed esperienze su misura in modo tale che siano davvero preziosi per loro. L’Inbound realizza connessioni tra il Brand e le persone, in particolare con quelle che rientrano in un certo target, aiutandole a mettere a fuoco esigenze ancora poco delineate e a trovare e gestire soluzioni per i loro problemi. Inbound è anche una potentissima buzzword suscettibile di arricchimenti di senso, slittamenti, proiezioni che riconfigura incessantemente la comunicazione aziendale nelle sue due dimensioni, virtuale e fattuale.

Per capire però la profondità di un approccio ai processi di marketing animato da una visione essenzialmente customer-centric è necessario fare un passo indietro. Anzi, no. È necessario piuttosto fare due passi avanti e dare una sbirciatina al futuro anteriore, a ciò che sta accadendo in questo momento e sta già determinando gli accadimenti di domani.

 

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Disruption e Customer Experience: il futuro anteriore dell’Inbound marketing

Nel keynote introduttivo all’Hubspot Inbound 2019, Brian Halligan, imprenditore, co-fondatore e CEO di Hubspot, guru indiscusso dell’Inbound marketing inizia il suo intervento con una affermazione che non ammette repliche:

“Disruption is speeding up not slowing down”, vale a dire: “la disruption sta accelerando ancora, e non accenna a rallentare.” Il termine disruption, utilizzato in relazione al concetto di innovazione, fu usato nel marketing per la prima volta da Clayton M. Christensen professore ad Harvard, in un libro che ha segnato un’epoca intitolato The innovator’s dilemma (1995).

Delle innovazioni introdotte e prodotte dalla digital transformatio in un recente articolo, abbiamo messo in evidenza le modalità tipiche di entrata sul mercato dei disruptors: prestazioni migliori, prezzi inferiori, maggiori potenzialità di personalizzazione, coinvolgimento di un target molto ampio (che si struttura a partire da quei consumatori considerati poco redditizi e fino a quel momento trascurati dai grandi brand).

Qui basti ricordare che una innovazione è disruptive se crea nuovi mercati e dà nuova forma a quelli già esistenti, attivando e portando a compimento in tempi brevissimi (spesso nel giro di poche settimane) una trasformazione strutturale delle dinamiche e degli equilibri dell’intero comparto.

Una nuova specie: experienced disruptors

Con quel suo istrionico modo di argomentare, Halligan distingue poi tra due “specie” diverse di disruptors: quella dei technology disruptors, ampiamente celebrata dalla letteratura di settore e un’altra, che lui chiama experienced disruptors, emersa recentemente all’interno del complesso contesto economico che ha caratterizzato gli ultimi anni.

Il suo intervento è per molti versi illuminante: i grandi disrupters (perturbatori) del recente passato hanno sfruttato la tecnologia per riscrivere le regole del business. Oggi, allo stesso modo, sono le innovazioni nella Customer Experience che stanno sconvolgendo quelle stesse regole, cinque adattamenti genetici (five genetic adaptations) che permettono agli experience disruptors di riconfigurare l’immaginario comunicato dal brand in modo da intercettare le traiettorie di clienti sempre più inafferrabili.

Le innovazioni della Costumer Experienced

1. Get experience marketing fit

Mentre i Brand storicamente presenti sul mercato si concentrano sul prodotto (product marketing fit), gli experienced disruptors lavorano sull’esperienza del consumatore rispetto a quel prodotto (experience marketing fit).

Si tratta di aziende capaci di costruire narrazioni significative, coinvolgenti e soprattutto basate su insight che provengono effettivamente dalle esperienze d’uso dei consumatori. Il salto mortale è doppio: da un lato la customizzazione del prodotto o del servizio, da prevedere fin dalle prime fasi di ingegnerizzazione, dall’altro nuove modalità di distribuzione che incontrino i clienti nei luoghi e nei tempi più appropriati rispetto alla loro vita quotidiana.

2. Remove friction

Gli experienced disruptors eliminano tutte le possibilità di frizione che un lead o un prospect possono incontrare durante il loro customer journey. Interiorizzano nei loro processi aziendali l’idea su cui si fonda l’Inbound marketing e la mettono in pratica in modo pieno e totalizzante: una volta che le persone sono entrate in contatto con il Brand, per esempio attraverso il sito web, è necessario non perderle più di vista, ma continuare a seguirle e supportarle, potenziando la relazione stabilita con l’acquisto.

Mantenendo costantemente focalizzate tutte le funzioni aziendali (marketing, vendite, servizio clienti) sui clienti, attuali e futuri, gli experience disruptors intervengono tempestivamente per risolvere rallentamenti, difficoltà, incomprensioni (frictions).

3. Personalize

Il successo delle proposte commerciali degli experienced disruptors ha ormai sempre più a che fare con una personalizzazione rapida e continua, che investe tutti i touch point del processo di marketing e vendita, a cominciare, per esempio, dalla progettazione del sito aziendale, che deve essere:

  • pensato per convincere gli utenti a tornare a visitarlo;
  • ottimizzato, ogni volta che ritornano, in funzione di ciascuno di quegli stessi visitatori e delle loro specifiche esperienze di navigazione.

Diverse sono le strategie mette in atto. Una è quella attuata, tra gli altri, da Netflix, che si sta allontanando dalle sue buyer personas e utilizza invece i dati in senso più prescrittivo per creare dei cluster, evitando così il rischio di tentativi psicografici destinati a risultare velleitari. Spotify sta invece pensando di lasciare le personas per utilizzare i casi (cases) nel tentativo di neutralizzare l’anonimato dei suoi utenti.

La sfida è in ogni caso sempre la stessa: gestire il ricchissimo patrimonio di dati ora disponibile per ottenere una sorta di “personalizzazione estrema”, o come dice Halligan, “un segmento di uno”, al contempo usando quel patrimonio in modo responsabile e sfuggendo alla tentazione di una personalizzazione eccessiva e francamente inquietante.

4. Sell through your customers

Gli incumbents (i player presenti in modo stabile sul mercato) sono bravissimi nel vendere ai loro clienti, gli experienced disruptors hanno invece imparato a vendere attraverso i loro clienti: non solo producono i propri contenuti ma incoraggiano i consumatori a crearne di originali sulla base delle loro personali esperienze con il prodotto. Questi Brand sono riusciti a costruire una relazione interattiva con i clienti, accogliendone critiche e suggerimenti, sviluppando azioni concrete a partire dai loro feedback e premiandone costantemente la lealtà.

5. Attack your business model

Gli experienced disruptors, infine, non si adeguano in modo passivo a un modello di business esistente. I modelli sono lì per essere contestati, traditi, superati. Ogni mercato è caratterizzato da un oligopolio: ogni azienda ha probabilmente tra cinque e dieci concorrenti e i modelli di business già diffusi si concentrano di solito sui prezzi, sul packaging, sulla garanzia.

All’interno di questo oligopolio tutti i termini e le condizioni dei modelli sono quasi identici. Gli experienced disruptors ripensano proprio quei termini e quelle condizioni così da renderli molto più facili da usare: una mossa lungimirante grazie alla quale aggiungere valore alla relazione dei clienti con il Brand.

Ricomponendo ora quanto scritto in un quadro unitario possiamo concludere che ciò che rende disruptive la Customer Experience può essere sintetizzato in una formula ricca di suggestioni: “Il modo in cui vendono è il motivo per cui vincono”. Coniata dallo stesso Halligan durante il suo keynote, questa frase, già diventata uno slogan, fissa in un frame l’attuale stadio evolutivo su cos’è l’Inbound marketing, che è anche un concetto, un movimento, un fenomeno in continua trasformazione.

Cos’è l’Inbound marketing di inizio millennio

Abbiamo definito cos’è l’Inbound Marketing, ma parlare dello stato dell’arte dell’Inbound marketing consente di aprire una finestra su quelli che sono i suoi sviluppi attuali e in questo senso permette anche di proiettare sul futuro le intuizioni di partenza, per inquadrare il presente all’interno di un più ampio contesto temporale.

Fin dalle sue prime interviste Brian Halligan, creatore della parola Inbound, insisteva sulla differenza tra questa nuova modalità di promozione e vendita e un marketing basato sull’interruzione (Outbound). Il punto nodale era sintetizzabile in una domanda: come può un brand, in un mondo avviato, diventare progressivamente interconnesso grazie alle nuove tecnologie, continuare ad essere visibile e influente per i suoi potenziali clienti?

E la risposta non poteva che essere: strutturando il rapporto con i clienti in modo da riflettere le forme fluide, aperte e trasparenti con cui le persone avevano cominciato a relazionarsi tra loro, a imparare, a informarsi, a fare ricerca, ad acquistare; in altre parole assecondando e sfruttando la naturalità della comunicazione digitale.

Prima di fondare insieme a Dharmesh Shah, una delle principali piattaforme software per la gestione del marketing aziendale (Hubspot), Halligan era un venture capitalist che aiutava le piccole e medie imprese nel loro percorso di crescita. Ci troviamo attorno alla metà del primo decennio degli anni 2000 e le attività promozionali erano sostanzialmente sempre le stesse: molto telemarketing o chiamate a freddo (cold-calling), e-mail marketing, spamming, fiere. Si trattava, per lo più, di tecniche tipiche del marketing outbound, come trade show, seminari o liste di nomi da contattare per telefono o via mail.

Nel caso di aziende di dimensioni maggiori, con budget sostanziosi a disposizione, il kit di strumenti pubblicitari poteva comprendere anche campagne di advertising con spazi su giornali e magazine, cartellonistica, annunci radiofonici e televisivi. Halligan si accorse che tutte queste tecniche — tecniche molto efficaci negli anni ’90 — sembravano non funzionare più. Sempre più strumenti venivano messi a punto per bloccare proprio quei messaggi, quelle fastidiose chiamate di telemarketing, l’insopportabile spamming nelle e-mail, gli spot inopportuni che interrompevano il programma televisivo preferito.

Cos’è l’Inbound marketing semplice, accessibile e significativo

Le persone, in quel vibrante scorcio di secolo che adesso appare lontanissimo, dedicavano sempre più tempo alle ricerche su Google, frequentavano attivamente la blogosfera ed entravano a far parte della comunità, destinata a diventare sterminata, degli utenti dei Social network (Facebook, Twitter e LinkedIn). La realtà in cui vivevano era cambiata in modo radicale: in quei giorni la rete cominciava a diventare un luogo familiare in cui incontrarsi, informarsi, costruire relazioni rilevanti anche se virtuali, fare shopping.

Come riuscire a raggiungere, allora, i potenziali clienti, sempre più difficili da intercettare, sempre più immersi nel Web, questo nuovo mondo multidimensionale improvvisamente accessibile con un semplice click?

Halligan risponde raccontando quale fu all’epoca la fonte della sua ispirazione, un oggetto a suo modo rivoluzionario, inerentemente disruptive: l’iPod. Prima della sua commercializzazione i lettori mp3 sul mercato erano tanti ma tutti piuttosto complicati, tanto che a usarli erano perlopiù persone con skills tecniche avanzate.

Quando Apple presentò iPod la sua fu una vera e propria scommessa: non si trattava dell’ennesimo lettore mp3, macchinoso e complesso, ma un device semplice che metteva a disposizione, poiché integrato direttamente con iTunes, l’unico contenuto davvero indispensabile: la musica.

L’Inbound marketing opera in questa stessa direzione: ricomprende in un unico sistema tutti gli strumenti che consentono di creare esperienze rilevanti per le persone, tenendo conto, grazie alla sempre migliore profilazione, della loro unicità di individui.

E questa è anche la mission dei video personalizzati Doxee: permettere di accorciare le distanze con i tuoi clienti, entrare in contatto con loro fornendo esperienze utili, sviluppare soluzioni in grado di semplificare davvero le loro attività professionali (e la loro vita).