Articolo aggiornato al 16/05/2022

Il marketing non convenzionale

Come può il marketing non convenzionale contribuire alla costruzione dell’awareness in una digital strategy? Lo scopriremo di seguito.

Qualsiasi efficace campagna di Guerrilla marketing si sviluppa sempre in due fasi successive: la prima, che prevede una serie di modalità di intervento sull’ambiente, fisico e virtuale e la seconda, che traduce e capitalizza l’attenzione del target attraverso il passaparola (on line e off line). È in questo secondo passaggio che l’evento “puntuale” (un video, un’azione di ambush marketing, un messaggio che compare in forma di sticker sui muri della nostra città) viene riconosciuto come coerente al sistema comunicativo del Brand e funzionale al suo racconto. ù

Da questo momento in poi la marca si precisa in un personaggio autonomo e le persone possono agire nelle storie contribuendo a rendere l’evento (e il marchio stesso) notiziabile: si attiva un processo di potenziamento dell’immagine e della reputazione aziendale, si costruisce awareness.

In questo articolo ci concentreremo, appunto, proprio sul processo di costruzione della brand awareness e lo affronteremo per rendere conto:

  • del ruolo giocato dal marketing non convenzionale;
  • della presenza, in queste prime battute del processo di acquisto, di una tendenza, multisfaccettata, alla personalizzazione.

 

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Building brand awareness: Buondì Motta e Old Spice

Brand Awareness: una definizione

La brand awareness di Seth Godin, tra i maggiori esperti di marketing del mondo (per primo ha coniato l’espressione “Permission marketing”), è maggiormente argomentata: “Un marchio è l’insieme di aspettative, ricordi, storie e relazioni che, nel loro insieme, muovono la decisione di un consumatore nella scelta di un prodotto o un servizio rispetto agli altri prodotti e servizi. Se il consumatore (che si tratti di un’azienda, di un cliente, di un elettore o di un donatore) non è disposto a spendere di più per accedere a un’offerta premium, è in grado di compiere una selezione chiara tra prodotti e servizi o non attiva il passaparola, allora non esiste alcun brand value per quel consumatore”.

Costruire un Brand, insomma, significa molto più che scegliere un logo rappresentativo. Il Brand è tutto ciò che pensano i clienti, i dipendenti e tutte le persone che a vario titolo si confrontano con quell’azienda. È l’equivalente di un profilo pubblico, incarna gli ideali e i valori che l’azienda proietta nel mondo attraverso:

  • la visual brand identity (logo, website, palette);
  • la brand voice (blog posts, mission statement, website copy);
  • la brand values (per esempio le cause che l’azienda sostiene);
  • la brand personality (cultura e filosofia aziendale).

 

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Se il guerrilla marketing nasce in riferimento a contesti circoscritti e limitati (piccole aziende con piccoli budget) i grandi Brand imparano in fretta a sfruttarne (e in alcuni casi, forse, ad addomesticarne) il carattere provocatorio, incanalando l’irriverenza del marketing non convenzionale nella messa a fuoco e nell’arricchimento progressivo delle proprie narrazioni. Proviamo a fornire elementi ulteriori, raccontando due casi esemplari di costruzione del brand.

Possa un asteroide colpire le noiose colazioni italiane

Un esempio di riscrittura della narrativa aziendale, anche piuttosto audace rispetto al comparto merceologico interessato e in generale alla cultura pubblicitaria italiana, è stata la campagna Buondì Motta – L’Asteroide che tanto fece parlare qualche anno fa, qui particolarmente utile per mettere in evidenza le modalità di interazione tra advertising e costruzione del brand, all’interno di un articolato piano di digital marketing.

Tre spot con tagli da 30 e 15 secondi e un cortometraggio conclusivo, ideati da Saatchi & Saatchi Italia e pianificati da Phd Media Italia, on air dal 27 agosto 2017 sulle tv nazionali e satellitari e online sui principali canali digital; una campagna social, curata da MSL Group Italia, con canvas dedicati ai diversi soggetti e creatività ad hoc per generare GIF a tema.

L’obiettivo: consolidare l’awareness e aggiornare il sentiment del target rispetto al brand che, in particolare tra le famiglie giovani, non sembra più sintonizzato su un’idea di colazione artificiale (cucine inondate di sole e famiglie perfette, inspiegabilmente entusiaste, già di primo mattino, alla prospettiva di una giornata in ufficio o a scuola).

Da qui il concept: la mamma e il papà di una bambina sorridente che parla con le parole di una pubblicità anni Sessanta non riescono a credere – possa un meteorite colpirli mentre parlano – che esista nel mondo una merenda davvero buona e leggera. E i risultati: 17,5 milioni di utenti unici, 12% engagement rate, 8,5 milioni di view complete del video, 90.000 conversazioni da parte degli utenti nei primi 10 giorni di campagna, oltre 360.000 interazioni e 135.000 citazioni sui social. In soli 7 giorni la campagna compare oltre 400 volte sui principali mezzi di comunicazione, tradizionali e non tradizionali (radio, stampa, tv, web).

Numeri notevoli, ma il dato che più degli altri fa riflettere sulle possibilità di utilizzare un registro linguistico disallineato (tipico dello storytelling da guerrilla) per sviluppare con successo una comunicazione “altra” è sicuramente questo: ne ha parlato il 74% degli italiani, compresi coloro che non l’avevano vista.

Al di là delle moltissime analisi che sono state pubblicate da addetti ai lavori, quotidiani generalisti e magazine più interessati alle conseguenze culturali degli spot che alla loro dimensione di business, la campagna Buondì generando un forte buzz on line e off line ha sicuramente contribuito a rafforzare la percezione del marchio in una direzione precisa, coerentemente con quanto cominciato negli anni precedenti.

In altre parole: singole azioni, proprie del marketing non convenzionale – spot animati da una volontà parodistica iconoclasta, pensati per una distribuzione prima di tutto web e social – hanno assolto le loro funzioni tattiche permettendo il dispiegarsi di una compiuta strategia di viralizzazione dei contenuti.

Hello ladies

La campagna The man you’re man can smell like è un eccezionale caso di rebranding grazie alla quale Old Spice ha saputo in modo intelligente tornare a inserirsi nella competizione di un comparto, quello dei prodotti per l’igiene dell’uomo (in prima battuta: deodoranti), in cui la comunicazione è da sempre contraddistinta da narrazioni altamente distintive, in quel momento (2010) monopolizzate da rivali più spregiudicati, ricchi o potenti. Come c’è riuscita?

Rielaborando la propria immagine in modo radicale, strutturando le proprie azioni di marketing (soprattutto digitale) a partire da un ascolto attento e per così dire “laico” del suo target di riferimento, prestando attenzione alle conversazioni delle nuove generazioni: in un periodo storico in cui il proverbiale “uomo che non deve chiedere mai” resiste immarcescibile anche se declinato nelle sue accezioni tardo yuppies e pre hipster (fatta eccezione per i commercial gender neutral di Dove), Old Spice si affida all’agenzia indipendente Wieden + Kennedy e si inventa una pubblicità che strizza l’occhio alle giovani donne (i veri clienti), ironizzando sugli stereotipi ancora così frequentati dai suoi competitor.

Ma c’è di più. Mentre Unilever annuncia che il lancio della linea di prodotti Dove men + care avverrà con la messa in onda di un nuovo spot durante il Super Bowl (l’evento sportivo che negli Stati Uniti registra gli ascolti televisivi più alti in assoluto, una vera e propria “Mecca per gli advertisers”), Old Spice decide di giocare in anticipo e pubblica qualche giorno prima, ma unicamente on line e soltanto sui social media (che in quel momento stavano prendendo piede) il primo di quei video che avrebbero velocemente stravolto gli equilibri del settore: è il 4 febbraio 2010.

A noi basta ricordare come l’incredibile viralità della campagna (5 milioni e 900.000 views su YouTube già il primo giorno che salgono a 20 milioni il terzo giorno) abbia avuto dopo soli tre mesi altrettanto incredibili ricadute economiche: a maggio 2010 le vendite dei prodotti Old Spice crescono del 60%, a luglio l’aumento raggiunge percentuali stratosferiche (125%).

Old Spice scompagina le carte non solo perché propone contenuti in certa misura estremi (nei suoi spot è presente, per esempio, un primo, blando suggerimento di quel women’s empowerment che sarebbe poi diventato un fenomeno di costume) ma anche perché sceglie di veicolare quegli stessi contenuti prima su media minori (in quel frangente), scommettendo sulla capacità dei contenuti stessi di creare engagement e infine, ancora più importante, puntando sulla volontà di partecipazione dei Millenials (a cui intendeva rivolgersi in prima battuta) invitati a una vera e propria avventura di Brand building. Old Spice fa tutto questo con un aperto gesto di sfida, sottraendosi alle logiche generaliste dell’evento televisivo e in contrapposizione con il main player del mercato.

A partire dalle case history  fin qui raccontate potremmo forse ragionevolmente arrivare a due conclusioni.

  1. Le logiche del marketing non convenzionale sembrano trovare nuova linfa creativa in ambiente digital.
  2. L’assunzione in entrambe le campagne del punto di vista del cliente ideale, da cui muoversi per la progettazione di un processo di branding significa riportare il consumatore nel cuore del marketing (le famiglie giovani nel primo caso e i Millenials nel secondo: base demografica, ma anche simbolica e antropologica).
  3. La comunicazione torna a umanizzarsi: lungi dall’essere target inerte le persone forniscono gli insight da cui partire e contribuiscono attivamente allo storytelling del brand (soprattutto nella fase della consideration).

Investire nei processi di umanizzazione del marketing: personalizzare

La brand awareness è probabilmente un concetto vago, sfuggente, ancora oggi difficilmente misurabile a livello quantitativo. Non è una metrica in senso stretto ma è una realtà oggettiva di incredibile valore: favorisce l’istaurarsi di un rapporto di fiducia, crea associazioni positive con la realtà quotidiana, produce brand equity.

Per costruire una solida brand awareness uno dei requisiti fondamentali è l’autenticità del racconto, che deve riflettersi nelle vite dei consumatori. Le storie grazie alle quali il marchio diventa riconoscibile devono essere condivisibili, disponibili a risuonare nella mediasfera in diversi formati su più canali. Si tratta in buona sostanza di interagire con i pubblici di riferimento in forme che non si focalizzano sul budget ma implicano immaginazione, partecipazione, lealtà; si tratta di personalizzare le proprie strategie di marketing scegliendo di investire sui processi di umanizzazione del business (comunication & sales).

I dati parlano chiaro:

  • l’80% dei consumatori ha maggiori probabilità di acquistare da un’azienda che offre un’esperienza su misura (fonte: Slideshare);
  • il 66% dei consumatori si aspetta che i marchi comprendano le loro abitudini ed esigenze (fonte: Salesforce);
  • 42% of customers are frustrated by impersonalized content (fonte: Adobe);
  • Il 72% dei clienti interagirà solo con messaggi personalizzati (fonte: SmarterHQ);
  • Il 63% dei consumatori non acquisterà da marchi con una scarsa personalizzazione (fonte: Smart Insights).

In altre parole: la frontiera della comunicazione è, una volta di più, la personalizzazione.

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Questa tendenza alla personalizzazione non riguarda soltanto i consumatori (che è necessario conoscere in profondità per poter disegnare su di loro proposte ad hoc), ma ha molto a che vedere con la percezione che un brand vuole restituire di sé: offrire una immagine più umana, coerente con i valori aziendali può fare scattare meccanismi psicologici positivi di vicinanza e di identificazione.