Il marketing emozionale ha conquistato da tempo uno spazio ben preciso all’interno delle strategie di marketing delle aziende, ed è ormai considerato essenziale per costruire relazioni di valore tra brand e consumatore: per dare una spinta alle vendite, per far crescere la consapevolezza del marchio, per aumentare la loyalty dei clienti. Che cos’è il marketing emozionale e come può contribuire a costruire nel tempo una relazione più autentica con il pubblico di destinazione? Proviamo a dare qualche risposta.

 

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Marketing emozionale: una definizione

Il marketing emozionale è un insieme di tattiche che mira ad attivare particolari risposte emotive. Queste risposte emotive, debitamente potenziate, possono poi essere sfruttate per favorire l’identificazione tra target di riferimento e brand e per guidare il pubblico lungo il percorso di acquisto di un prodotto o un servizio

Le emozioni nel marketing danno significato e profondità all’esperienza del marchio, di un prodotto o di un servizio, creano una connessione tra cliente e azienda, e questo legame, se coltivato con costanza, può condurre a un impegno a lungo termine.

Attraverso il marketing emozionale i brand aspirano a radicarsi nella vita delle persone. Mirano sia a sedimentarsi nel tempo lavorando sull’immaginario collettivo, sia ad appropriarsi di temi di attualità agendo sulle tendenze più popolari in un dato momento. Topics rilevanti come l’inclusività o la tutela dell’ambiente, per esempio, offrono moltissimi agganci emotivi alle iniziative della aziende: un aumento del prezzo dei prodotti riconducibile agli sforzi di riconversione degli apparati produttivi fa parte delle possibili azioni di un marketing emozionale che intenda connettersi con i clienti più sensibili al tema.

Il successo del marketing mostra che il livello di connessione stabilito, più intenso rispetto ad altre forme di marketing, contribuisce a creare, sul lungo periodo, un sentimento di fedeltà del cliente e nel breve periodo una maggiore e convinta risposta all’acquisto.

 

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Alle origini del marketing emozionale: gli emotional motivators

The New Science of Customer Emotions di «Harvard Business Review» pubblicato qualche anno fa e ormai diventato un classico, è una delle fonti da citare se si vuole parlare di marketing emozionale. Nell’articolo, Magids, Zorfas e Leemon sostengono che se un’organizzazione riesce a connettersi con le emozioni dei clienti, il vantaggio competitivo che ricava è potenzialmente enorme. 

Purtroppo, costruire quel tipo di connessioni è spesso materia di congetture e supposizioni più che di un atteggiamento razionale fondato su basi scientifiche. I quasi 300 “emotional motivators” (attivatori di emozioni) che gli autori dell’articolo propongono rappresentano un tentativo di ovviare a questa situazione di estrema vaghezza. Utilizzando l’analisi dei big data, i motivators possono essere collegati a specifici comportamenti, ciascuno contraddistinto da un grado atteso di redditività. Attraverso l’analisi di questi indicatori le aziende sarebbero in grado di identificare e sfruttare le particolari motivazioni che spingono i clienti a comprare un certo prodotto o servizio. 

È un processo suddivisibile in tre momenti distinti. 

  1. Le aziende effettuano sia ricerche di mercato sia analisi approfondite sui dati che hanno già a disposizione. L’obiettivo è scoprire ciò che motiva i loro clienti: voglia di avventura, desiderio di sicurezza, tensione verso il successo e così via (ulteriori indagini aumentano la conoscenza e la comprensione del target). A questo punto I risultati vengono interpretati per identificare i motivatori emozionali. 
  2. Le aziende si concentrano sui loro migliori clienti per scoprire quali dei motivatori appena identificati sono specifici o particolarmente rilevanti in termini di valore prodotto. In particolare vengono individuati i motivatori chiave, di solito due o tre, che mostrano più degli altri una forte associazione con il brand. In questo modo è possibile elaborare una sorta di “guida alle emozioni” per selezionare quelle su cui è necessario investire per far crescere consapevolezza e coinvolgimento nel segmento di clienti considerato più prezioso. 
  3. Le aziende si impegnano a livello strutturale per far diventare la connessione emotiva una delle leve principali della crescita, non solo del marketing ma di ogni funzione aziendale.

Come funziona il marketing emozionale: le emozioni 

Prima di approfondire le tattiche del marketing emozionale, metteremo in evidenza quelle emozioni che sembrano integrarsi meglio nelle strategie delle aziende. Nella maggior parte dei casi non si tratta di emozioni primarie, innate e universali (tristezza, paura, gioia, rabbia, disgusto) quanto piuttosto di emozioni secondarie (culturalmente connotate), legate alla specifica esperienza del singolo individuo e definite dalle sue interazioni sociali.

Raccontare la nostalgia

Il racconto della nostalgia è il racconto di un momento felice ormai trascorso che può però, in qualche misura, essere ricreato grazie all’intervento del brand. Anche se quello del throwback (“tuffo nel passato”) è un effetto che possiamo pensare di riferire soprattutto alle generazioni più anziane, l’emozione del ricordo o della nostalgia, se innescata correttamente, può funzionare moltissimo anche con i consumatori più giovani.

Incanalare la rabbia 

Un brand può scegliere di schierarsi apertamente a favore di un certo movimento o di fare propria una posizione netta su un argomento sensibile. La sua strategia dovrà in questo caso provare a incanalare rabbia e senso di rivalsa (le due emozioni che più spesso associamo al desiderio di cambiamento, anche collettivo) e magari spingere il proprio target – ma anche pubblici diversi – a una maggiore consapevolezza. Essere associati a una forte presa di coscienza può essere rischioso, sia perché il brand si pone all’interno di una possibile polarizzazione dell’opinione pubblica sia perché il rischio di epic fail (per esempio la denuncia di una qualche forma di “washing”) è sempre dietro l’angolo.

Amplificare la FOMO (Fear Of Missing Out)

La Fear Of Missing Out, traducibile in italiano come “paura di rimanere indietro, di essere esclusi” è un’emozione molto umana, che deriva dal fatto che siamo, fondamentalmente, animali socializzati da milioni di anni di vita tribale. Il marketing emozionale sfrutta questa emozione antichissima – oggi amplificata a dismisura nella comunicazione istantanea dei social network – per spingere il suo pubblico a prendere decisioni di acquisto tempestive. Crea un senso di urgenza nei consumatori a cui si rivolge, che cominciano a pensare (meglio, a sentire) di non potersi assolutamente permettere di perdere quello che “gli altri” hanno già acquistato o sperimentato, pena l’esclusione sociale.

 

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Creare aspirazioni

La gioia è un’emozione caratterizzata da uno stato di benessere e da un senso di possibilità, e deriva spesso dal raggiungimento di un obiettivo – a maggior ragione in una società della performance come quella contemporanea. Il marketing emozionale mette in scena presenti potenziali in cui gli altri (ancora una volta ciò che proviamo è socialmente definito) mostrano di provare un senso di appagamento (felicità, magari) grazie all’uso di un prodotto. Questi altri ci assomigliano ma non del tutto, sono “altri” aspirazionali.

Come funziona il marketing emozionale: le tattiche 

Attraverso quali azioni è possibile incanalare il potenziale delle emozioni? Quali tecniche consentono di valorizzare le emozioni incorporandole nei processi di marketing? 

In generale una buona strategia di marketing emozionale non può mostrarsi irrispettosa o aggressiva – sono per fortuna lontani i tempi delle televendite – ma deve mettersi allo stesso livello dei clienti, mostrando loro comprensione ed empatia. 

Le tattiche a disposizione del marketing emozionale sono numerose. Qui riporteremo alcune delle più efficaci.

Usare immagini potenti

Usare le immagini, anche in contenuti audiovisivi, è la modalità più semplice, efficace e immediata (ma non banalizzante) per tradurre qualcosa di invisibile in una realtà percepita e riconoscibile.

Usando le immagini – soprattutto quelle più esatte, stratificate, suggestive, potenti – il marketing emozionale può per esempio convogliare l’ansia del suo pubblico (che sta cercando la soluzione a un problema) in un’azione desiderata, come la partecipazione alla conversazione con il brand, una conversione, l’acquisto. Può inoltre alimentare speranze e aspirazioni, ammobiliando realtà parallele in cui un prodotto o un servizio permettono di ottenere qualcosa di lungamente desiderato.

Le aziende sfruttano da anni la nostra fisiologica predisposizione a farci catturare dalle storie visive. I marketer e i professionisti della comunicazione, in particolare, utilizzano in modo sistematico i video, integrandoli nelle loro strategie di visual storytelling, per centrare una serie di obiettivi strategicamente cruciali: dalla comunicazione più efficace della qualità di un prodotto o servizio, alla costruzione e promozione dell’identità del brand all’avvio e consolidamento della conversazione con lead o clienti. 

Grazie al visual storytelling, le aziende migliorano la relazione con il loro pubblico incanalando il coinvolgimento emotivo dello spettatore e motivandolo ad agire.

Costruire social proof attraverso i contenuti generati dagli utenti

Il marketing emozionale si propone innanzitutto di creare fiducia e può farlo solo aumentando il coinvolgimento del suo pubblico di riferimento. Uno dei modi più efficaci per raggiungere questo obiettivo è attraverso la testimonianza condivisa, la social proof mostrata spontaneamente da chi ha già acquistato un particolare prodotto o servizio e ne ha tratto una esperienza positiva.

I contenuti generati dagli utenti (post sui canali social, recensioni, video tutorial più o meno improvvisati, e così via) hanno un grande potere di convincimento: sono percepiti come affidabili perché sinceri, autentici, reali. 

Le persone preferiscono fidarsi dei consigli di un consumatore reale piuttosto che di quelli, sempre un po’ sospetti, forniti direttamente dal brand. Per questo le recensioni online e il “passaparola” influenzano così tanto le decisioni di acquisto.

Personalizzare la comunicazione

I clienti vogliono sentirsi ascoltati e compresi. Vogliono contenuti che rispondano alle loro domande e affrontino i loro punti deboli. Vogliono un marketing che dimostri di capirli e sia in grado di aiutarli. Soprattutto vogliono essere riconosciuti. E l’unico modo per instaurare con il pubblico una relazione improntata alla conoscenza reciproca è attraverso una comunicazione sempre più personalizzata. Se l’esperienza del consumatore è decisamente migliorata nel corso dell’ultimo decennio è proprio grazie alle possibilità di personalizzazione offerte dalla digitalizzazione. 

Il marketing emozionale non esisterebbe se non ci fosse l’opportunità di elaborare indagini accurate del panorama emotivo dei consumatori (panorama che varia ovviamente da individuo a individuo). In questo senso, la tecnologia supporta il marketing emozionale attraverso analisi sempre più avanzate. I sistemi informatici permettono di tracciare con maggior precisione l’intero spettro emotivo umano e di analizzare il sentiment dei contenuti, sia quelli creati dai brand sia quelli generati dagli utenti. Mettono i marketer in condizione di identificare le diverse manifestazioni emotive che possono prodursi nell’interazione tra brand e utenti (per esempio le reazioni e i commenti a un post diventato virale) e di formulare ipotesi suffragate dai dati riguardo a coinvolgimento, umore, atteggiamenti e personalità. 

 

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Che cosa c’è dietro (e dentro) le emozioni?

Nel recente passato due diversi prodotti di intrattenimento di enorme successo, uno rivolto ai più giovani – ma progettato, come spesso accade, anche per platee più adulte – e l’altro diretto a un pubblico di lettori di saggistica mainstream, hanno contribuito a diffondere una teoria delle emozioni che potremmo chiamare deterministica. Secondo questa teoria il nostro comportamento sarebbe il risultato di una complicata interazione di processi biochimici e rimarrebbe pochissimo spazio per l’esercizio del libero arbitrio. 

Stiamo parlando del film di animazione prodotto da Pixar Inside Out e del best-seller di Yuval Noah Harari Sapiens (in particolare del capitolo “And They Lived Happily Ever After”). In entrambi i casi l’ipotesi sostenuta è quella per cui i nostri stati mentali ed emotivi sarebbero governati da meccanismi biochimici che hanno preso forma in milioni di anni di evoluzione. In questo senso il nostro benessere non dipenderebbe da agenti esterni quanto piuttosto da un complesso sistema di nervi, neuroni, sinapsi e sostanze quali serotonina, dopamina e ossitocina.

Inside Out e le riflessioni di Yuval Noah Harari sulla “chemical happiness” contenute in Sapiens forniscono una visione allo stesso tempo interessante e inquietante, ci restituiscono una realtà in cui saremmo sostanzialmente privi di controllo, incapaci di governare le nostre emozioni e il comportamento che da esse discende. 

La realtà potrebbe però essere molto più complessa e sfumata di così. Nel suo libro How Emotions are Made, per esempio, Lisa Feldman Barrett afferma che le emozioni sono costruite attraverso l’interazione tra diversi elementi, fisiologici e culturali, tra i processi interni al nostro cervello, la memoria e l’esperienza

Il dibattito è apertissimo e avvincente e merita sicuramente di essere approfondito, ma esula dall’argomento oggetto di questo articolo. Quello che qui ci preme di mettere in evidenza è un particolare aspetto della connessione tra emozioni e marketing e cioè il legame indissolubile che esiste tra le emozioni e le storie.

L’arma più potente del marketing emozionale sono le storie

Le storie ci sono immediatamente familiari perché fanno parte di processi radicatissimi e sono così efficaci – vengono utilizzate in qualsiasi ambito della creatività umana – perché entrano in contatto con i nostri sistemi di credenze e di valori. La connessione emotiva che producono non sarebbe semplicemente il risultato di elementi esterni ma troverebbe un fondamento biologico: di fatto saremmo tutti programmati – ciascuno a suo modo, sia chiaro – per avere, rispetto alle storie che ascoltiamo, leggiamo, guardiamo, le stesse risposte fisiologiche.

Scrive Lisa Cron nel suo Story or Die. O racconti o sei fuori che raccontare una storia farebbe scattare un meccanismo a livello biologico: una sequenza di tre elementi, strettamente connessi, che insistendo su specifici neurotrasmettitori otterrebbero lo strabiliante risultato di proiettarci nell’universo finzionale.

Il neuroeconomista Paul Zak aggiunge un’ulteriore accezione alla storia intesa come elemento strutturale della realtà: “Le narrazioni che ci spingono a prestare attenzione e ci coinvolgono emotivamente – spiega – sono storie che ci spingono all’azione”. I contenuti narrativi producono conseguenze concrete ed è per questo che il marketing, non solo quello emozionale, le usa da sempre.

Quindi tutto bello, facile, giusto? Non proprio.

 

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Jonathan Gottschall, esperto di “scienza delle storie”, getta luce sulla proverbiale altra faccia della medaglia, sul lato oscuro dello storytelling che attingendo a un particolare segmento dello spettro delle emozioni umane – emozioni disforiche quali paura, rabbia, frustrazione, tristezza, disgusto, delusione – arrecherebbe più danno che giovamento all’umanità (The story paradox – How our love of storytelling build societies and tears them down). 

Una “mind-disordering story” (che possiamo tradurre in italiano come “una storia che sconvolge il modo in cui funziona la nostra mente”) è una storia che non distingue il vero dal falso, il possibile dall’esistente, e usa le tensioni emotive che crea per “manipolare” il pubblico

Non è la manipolazione il vero problema – tutte le storie sono congegnate per muovere chi ascolta verso una certa direzione – quanto piuttosto la progressiva dissoluzione delle strutture (narrative, concettuali, simboliche) che ci permettono di distinguere la realtà dalla fiction e di orientarci tra le tante verità alternative di cui il nostro mondo si compone. Le nuove tecnologie stanno amplificando la portata di un meccanismo – che esiste da sempre ed è alla base, secondo Gottschall, dei più grandi mali che affliggono gli esseri umani – che mina dalle fondamenta l’edificio di conoscenze storiche e fattuali su cui si fonda il vivere civile.

Se campagne di disinformazione, teorie complottiste e fake news non sono affatto estranee al mondo del consumo, il marketing emozionale deve assumersi un carico di responsabilità ulteriore, impegnandosi a scegliere e validare le storie che vuole raccontare.