Articolo aggiornato al 16/05/2022

Che cos’è l’Outbound Marketing? Una definizione

Che cos’è l’outbound marketing? Parliamone in questo articolo. Una prassi consolidata, fondata sull’esperienza d’uso più che sulla teorizzazione, identifica l’Outbound Marketing a partire dalla sua differenza con l’Inbound Marketing: una differenza costitutiva, strutturale, che trova nelle stesse condizioni di esistenza delle due metodologie la propria radice (il contesto economico e culturale di sviluppo; il panorama delle tecnologie di comunicazione a disposizione; il profilo per così dire antropologico dei consumatori – meglio: i profili – in costante, pressoché imprevedibile evoluzione).

In questo articolo non ci sottrarremo allo storico delle descrizioni e inizieremo proprio dalla differenza fondamentale tra queste due tipologie di marketing, ma arricchiremo la spiegazione attraverso un’altra distinzione fondamentale, quella tra Funnel di vendita e Flywheel.

 

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Che cos’è l’Outbound marketing? Inbound vs. Outbound – Permission vs. Interruption 

Che cos’è l’Outbound marketing? Con l’espressione Outbound marketing ci riferiamo alle azioni di marketing attraverso le quali un’azienda avvia una conversazione con un pubblico, tendenzialmente poco definito, a cui invia messaggi che sono creati (nel migliore dei casi) in modo tale da giustificare l’interruzione del tempo dell’utente, spettatore, ascoltatore.

Qualche esempio: le forme più tradizionali di marketing e pubblicità come spot televisivi, pubblicità radiofoniche, pubblicità stampate (annunci di giornali, annunci di riviste, volantini, brochure, cataloghi, ecc.), fiere commerciali, chiamate a freddo (cold call) ed e-mail, avvertite spesso come spam. Nel caso di aziende con budget sostanziosi a disposizione il piano di comunicazione poteva comprendere anche campagne di advertising con spazi su giornali e magazine, cartellonistica, annunci radiofonici e televisivi.

Quindi, che cos’è l’Outbound marketing? Outbound è quindi, prima di tutto un marketing dell’interruzione. Seth Godin lo descrive come quella modalità di interpellazione che ha caratterizzato, praticamente dalle origini della società dei consumi fino ai primi anni del nuovo millennio, la comunicazione delle aziende verso i suoi potenziali consumatori.

A questa comunicazione che non chiedeva il permesso e a cui le persone non prestavano volontariamente la propria attenzione: erano in qualche modo forzate a concederla. Si trattava di una pubblicità impositiva, in una certa misura anche aggressiva perché pretendeva di inserirsi nella vita degli individui rivendicando il diritto ad essere vista e ascoltata in quel preciso luogo e in quel dato momento.

 

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Digital transformation: come cambia lo status del consumatore

La digital transformation cambia tutto nel giro di brevissimo tempo: il consumatore, indaffarato, annoiato, irritato dalla mancanza di riconoscimento del suo nuovo status da parte delle organizzazioni non si lascia più interrompere facilmente. È a suo agio nell’ingaggiare processi d’acquisto simmetrici e bidirezionali, è capace di selezionare i messaggi di interesse e di utilità. Rivendica il diritto di decidere, rispondere, partecipare. Dedica sempre più tempo alle ricerche on line, frequenta attivamente i social network, si destreggia attraverso le recensioni e segue percorsi sempre più personalizzati, muovendosi tra luoghi virtuali e fisici per arrivare al termine del suo buyer’s journey attraverso l’affermazione di una decisione interamente sua, istintiva o ponderata che sia.

L’avvento della digitalizzazione ha consentito e dato impulso allo sviluppo dell’Inbound marketing così come lo conosciamo e Inbound, per differenza rispetto all’Outbound è, principalmente, permission marketing perché reinterpreta in termini di privilegio quello che fino a quel momento le aziende avevano concepito come un diritto, il privilegio dell’attenzione dei consumatori, da guadagnarsi offrendo contenuti creati a partire da urgenze, esigenze e aspettative reali, da desideri dichiarati o addirittura latenti.

L’avvento dell’Inbound: ridisegnare la strategia comunicativa

Una volta chiarito che cos’è l’Outbound marketing, parliamo di Inbound. A inizio millennio l’Outbound marketing, basato sull’interruzione, dava quindi enormi segni di sofferenza. Un indicatore inequivocabile di questo inesorabile declino lo cogliamo nel dispendio di energie creative impiegate nell’invenzione di strumenti che servivano a bloccare i messaggi veicolati con le tecniche elencate sopra, efficaci negli anni ’90, ma diventate obsolete (il codice sorgente per Adblock, la prima estensione ad blocking fu scritto dallo sviluppatore Henrik Aasted Sørensen nel 2002 ed ebbe immediata diffusione).

Una lotta senza esclusione di colpi, tra i Brand che continuavano a credere, spesso in totale buona fede, di poter disporre illimitatamente delle risorse di attenzione dei consumatori e i consumatori stessi, che si stavano abituando a opportunità di reazione, proazione e partecipazione fino ad allora sconosciute: stavano sperimentando la libertà di rinegoziare, momento per momento, il loro ruolo all’interno del viaggio di acquisto.

Da lì a poco l’Outbound, con i suoi strumenti spuntati e le sue logiche appannate, sarebbe stato sostituito, all’interno della “cassetta degli attrezzi” a disposizione dei dipartimenti marketing e sales, con le nuove piattaforme di marketing automation (una su tutte, ovviamente, Hubspot) che padroneggiavano concetti, linguaggi e tool già pienamente Inbound. La strategia comunicativa doveva essere ridisegnata tenendo presente le competenze digitali, l’abitudine all’esercizio critico e la nuova consapevolezza di clienti sempre più attenti e selettivi.

Dall’imbuto al volano: come cambia il processo di vendita

A partire da quel momento di drammatica transizione si è resa necessaria un’opera di continuo aggiornamento dei sistemi di previsione dei comportamenti dei consumatori e degli schemi interpretativi usati per impostare le azioni di marketing.

Per riuscire a registrare le evoluzioni di un mondo trasformato dalle nuove tecnologie di comunicazione – un mondo interconnesso e popolato da clienti impegnati a perseguire programmi di acquisto sempre più multisfaccettati – si è reso necessario assecondare e sfruttare la naturalità della comunicazione digitale. È in questo momento che il funnel di vendita, anche se riadattato al nuovo contesto virtuale, comincia a mostrarsi poco flessibile, costituzionalmente inadeguato a relazionarsi ai clienti, a leggere i pattern nascosti nei loro passaggi sul web. Ma procediamo con ordine e proviamo a dare alcune definizioni.

L’imbuto: il funnel di vendita

Cos’è il funnel di vendita nell’Outbound marketing? Il funnel di vendita (noto anche come revenue funnel or sales process) è uno schema teorico che presenta una duplice determinazione. Si riferisce allo stesso tempo:

  1. al processo di acquisto attraverso il quale le aziende guidano i clienti;
  2. al processo attraverso il quale un’azienda individua e qualifica i clienti in funzione della vendita dei suoi prodotti e servizi.

Il funnel di vendita si articola in più passaggi, che differiscono a seconda del modello di vendita specifico. In una delle sue definizioni più estese il funnel conta fino sette fasi.

  • Awareness. I prospect diventano consapevoli dell’esistenza di una soluzione.
  • Interest. I prospect dimostrano interesse per un prodotto e si attivano per ottenere informazioni su quel prodotto.
  • Evaluation. I prospect (o, nel B2B, le società prospect) esaminano le soluzioni dei concorrenti mentre avanzano verso una decisione di acquisto finale.
  • Decision è la fase in cui viene raggiunta una decisione finale e inizia la negoziazione.
  • Purchase. In questa fase la persona (o l’azienda) procede all’acquisto dei beni o servizi.
  • Reevaluation. Nelle vendite B2B è comune che le offerte comportino contratti che devono essere rinnovati. Man mano che un cliente acquisisce familiarità con un’offerta e soprattutto quando un contratto volge al termine, entra in una fase di rivalutazione durante la quale decide se rinnovare o meno il contratto.
  • Repurchase. Il cliente acquista nuovamente un prodotto o un servizio.

Il volano: il Flywheel

Per anni, dunque, le aziende hanno strutturato le loro strategie di business attorno al funnel di vendita, strumento prezioso, dal grande valore operativo. Di recente il funnel ha iniziato a dimostrarsi incapace di interpretare correttamente la realtà, online e offline, mostrando alcuni limiti. Oggi che i referral dei clienti e il passaparola esercitano una grandissima influenza sul processo di acquisto, il funnel mostra il fianco alle critiche: i clienti sono ancora concepiti come after-thought (qualcosa a cui pensare in un secondo momento, a transazione avvenuta) non come forza trainante, da alimentare in prima battuta e da tenere costantemente accesa. Il funnel produce clienti ma non considera come questi clienti possano aiutare attivamente il business a crescere, fin dai primi step del processo. È qui che entra in gioco il Flywheel.

Con la sua forma a imbuto, il Funnel implica una selezione graduale e lineare: dalla moltitudine più o meno anonima individuata dalle azioni di marketing, ai gruppi maggiormente definiti su cui attivare le azioni di vendita, a un consumatore finale che rappresenta una sorta di scatola nera da scalfire con il fuoco incrociato di messaggi costruiti sulla formulazione probabilistica di buyer personas.

A differenza del funnel il Flywheel non si esaurisce con la vendita (o con la ripetizione degli ultimi step del processo di vendita) ma “immagazzina e rilascia energia”, a ciclo continuo. Il riferimento qui è illustre: perfezionato per il settore metallurgico ed estrattivo dallo scienziato e inventore scozzese James Watt il flywheel (in italiano: “volano”) era, prima di tutto una ruota, ma incredibilmente efficiente dal punto di vista energetico: la quantità di energia immagazzinata dipendeva dalla velocità con cui il volano girava, dalla quantità di attrito che incontrava e dalle sue dimensioni. Nella sua apparente semplicità, questo disco posto su di un’asse, fu in grado di dare enorme impulso alla seconda fase della rivoluzione industriale.

Flywheel: una metafora circolare che riporta al centro il cliente

Fuor di metafora, la quantità di energia liberata in questo modello teorico recentemente introdotto da Hubspot, dipende dall’impulso che subiscono le aree a maggiore impatto, come per esempio il team di assistenza clienti, aree che a loro volta trasmettono energia al resto del sistema e nell’ambiente circostante. I clienti sono parte integrante del processo: perno attorno a cui ruota e fondamentale cinghia di trasmissione verso l’esterno.

Applicare una certa forza al flywheel significa investire su un particolare step del processo. Eliminare qualsiasi possibile attrito nella strategia aziendale vuol dire esaminare in modo onesto la struttura dei team coinvolti e il modo in cui lavorano.

  • Tutti i team sono allineati o operano in silos?
  • Il prezzo del prodotto o del servizio è semplice da comunicare e da comprendere o è reso opaco da una serie di fee confuse?
  • I potenziali clienti possono connettersi con il Brand quando e dove vogliono o sono costretti a seguire un unico percorso senza possibilità di deviazione?

Attract: guadagnare l’attenzione del tuo target con contenuti utili; eliminare le barriere mano a mano che i visitatori fanno la conoscenza dei valori aziendali incorporati nei prodotti e servizi.

Engage: instaurare relazioni e non chiudere semplicemente un deal. Permettere ai clienti di raggiungerti nel momento e attraverso i canali che preferiscono.

Delight: legare il successo alla soddisfazione dei clienti. Distribuire le risorse in modo più efficiente lungo l’intera Customer Experience.

Incontrare i clienti: logica customer-centric del Flywheel

Il funnel ha costituito per lungo tempo una buona rappresentazione del modo in cui gli acquirenti erano abituati a conoscere i prodotti, vale a dire attraverso modalità push di distribuzione dei contenuti che erano tipiche di un marketing ancora Outbound. I materiali di marketing raggiungevano il target spesso non richiesti e venivano eventualmente  approfonditi nelle comunicazioni con i venditori. Non è così che oggi le persone arrivano alle loro decisioni di acquisto: le conversazioni avvengono più che mai in luoghi diversi e spesso distanti, tra più persone, contemporaneamente.

I consumatori chiedono suggerimenti in rete, cercano menzioni del Brand sui social media, leggono recensioni di altre persone su siti specializzati, si informano su piattaforme e magazine on line. Il funnel tradizionale, lineare, non riesce a capitalizzare l’esperienza vissuta dal cliente né riesce a individuare i touch point in cui il processo rallenta perché incontra delle resistenze che complicano il rapporto con il Brand o ne intorbidiscono le conversazioni. Il flywheel è il modello, prima di tutto mentale, che unisce in modo fluido tutti gli elementi del processo in una efficace logica customer-centric: rimuovere l’attrito dai processi interni significa crescere più velocemente per incontrare finalmente le persone, con i loro vissuti particolari e le loro specifiche modalità di interazione con prodotti e servizi.

In conclusione, il Flywheel non poteva nascere che nell’ambito dell’Inbound marketing, molto più flessibile e aperto ad accogliere le suggestioni provenienti dai consumatori rispetto all’Outbound. L’Outbound marketing, d’altra parte, sta sciogliendo certe sue rigidità per muoversi in direzione di relazioni più qualificate e contenuti personalizzati.