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Guerrilla marketing: cos’è ed esempi geniali

cos'è il guerrilla marketing

Articolo aggiornato al 12/05/2022

Cos’è il guerrilla marketing?

Cominciamo questo articolo con un grande interrogativo a cui tenteremo di dare una risposta: cos’è il guerrilla marketing?

Parlare di guerrilla marketing non può limitarsi a fare un elenco delle principali tecniche utilizzate, seppur geniali, o delle case histories che rimbalzano per il web con il loro portato di successi provocatori. Per comprendere cos’è il guerrilla marketing bisogna prima di tutto raccontare la storia di come è cambiato il paradigma della comunicazione, non tanto dal punto di vista dell’innovazione tecnologica quanto piuttosto del rapporto tra creatori di messaggi e fruitori, tra l’azienda, mediata dal marketing, e i potenziali clienti.

 

 

Guerrilla marketing: un po’ di storia

Per comprendere cos’è il guerrilla marketing dobbiamo fare un tuffo nel passato. Esso, infatti, nasce negli anni Settanta come reazione all’approccio paternalistico e accondiscendente tipico della comunicazione pubblicitaria dei decenni precedenti: fino a quel momento (dall’inizio del ventesimo secolo e per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta) si era trattato di convincere i clienti rassicurandoli ed educandoli, forti del fatto di stare trasmettendo conoscenze altrimenti accessibili ai solo addetti ai lavori. Il consumatore doveva essere istruito.

Qualcosa è cambiato

“La pubblicità si basa su una cosa: la felicità. E sai cos’è la felicità? La felicità è l’odore di una nuova auto. È libertà dalla paura. È un billboard sul lato di una strada che urla, rassicurante, che qualunque cosa tu stia facendo è ok. Che tu sei ok” (fonte: Mad Men).

Don Draper pronuncia questa frase durante il primo episodio di Mad Men, serie cult dedicata al mondo dell’advertising. Siamo alla metà degli anni Sessanta e le campagne pubblicitarie sono costruite su grandi budget, che permettono di comprare grandi spazi e ottenere la maggiore visibilità possibile. Come nei decenni precedenti, creativi e uomini del marketing, i mad men (da Madison Avenue dove avevano sede le principali agenzie newyorkesi) lavorano per generare profitti e per generare profitti devono raggiungere e persuadere un enorme numero di persone.

Qualcosa, però, sta evidentemente cambiando se al desiderio consumistico puro, da instillare e assecondare attraverso slogan venati di moralismo, si sostituisce uno sforzo di introspezione che va a scandagliare l’animo collettivo dei consumatori. Che cosa vogliono i clienti? La felicità, da acquistare attraverso dentifrici e macchine nuove, certo, ma pur sempre la felicità.

I consumatori imparano in fretta a interpretare i messaggi, a organizzarli in gerarchie secondo priorità del tutto personali, memorizzando soltanto quegli annunci che in qualche modo si rivelano utili all’interno delle loro pratiche quotidiane e ignorando, serenamente, tutto il resto. Sullo sfondo di una tumultuosa stagione politica, economica e culturale si preparano le condizioni per un drammatico shift anche nella comunicazione pubblicitaria.

 

 

Jay Conrad Levinson: la “rivoluzione” del guerrilla marketing

Nel 1983 Jay Conrad Levinson, ex direttore creativo della Leo Burnett e autore di campagne indimenticabili (Marlboro Man e Marlboro Country tra tutte) ha l’indiscusso merito di raccogliere in un libro, destinato a diventare un long seller, le esperienze maturate sul campo da lui stesso e da altri professionisti del settore. Il libro conia la fortunatissima espressione “guerrilla marketing” mutuando la terminologia dalla teoria militare, particolarmente pervasiva in quel momento storico (siamo in piena Guerra Fredda), tanto da essere utilizzata anche in contesti linguistici “civili”. Tra i primi a declinare il linguaggio militare in termini di marketing warfare in riferimento alle grandi aziende era stato, qualche anno prima, Philip Kotler: “Il marketing è una guerra nella quale il nemico è la concorrenza e il consumatore è la terra di conquista”.

Una delle grandi intuizioni di Levinson è quella di trasporre la metafora guerresca sulla piccola e media impresa americana. Scrive a questo proposito Andrea Natella in Guerrilla marketing, una definizione convenzionale: “È proprio grazie a questa concezione che il guerrilla marketing di Levinson riesce a collocarsi a un livello strategico per l’impresa. Il vincolo dell’inferiorità militare (ossia di budget) della piccola impresa è la premessa per poter postulare la centralità della funzione creativa e della relazione con il cliente”.

Alla metà degli anni Ottanta l’arsenale di Levinson è pronto per essere utilizzato dai molti David che fino a quel momento hanno combattuto una guerra impari contro i Golia del marketing.

Sneakers e hip hop: “My Adidas” di Run-DMC

Adidas non è esattamente un outsider in cerca di conferme ma in quello scorcio di secolo sta attraversando un periodo di grande sofferenza finanziaria e di confusione manageriale. Quando il gruppo rap Run-DMC pubblica il singolo “My Adidas”, che menziona per 22 volte il famoso brand di scarpe da ginnastica, la canzone diventa immediatamente una hit, radicalizzando il collegamento tra un outfit e la musica rap e contribuendo alla vendita delle scarpe Adidas in tutto il mondo. Leggenda vuole che solo dopo aver assistito alla performance del brano durante un concerto (i rapper invitavano il pubblico a tenere le scarpe slacciate, rigorosamente Adidas, in alto sopra la testa) un executive manager abbia offerto al gruppo un contratto di endorsement del valore di un milione di dollari.

Oggi parleremmo probabilmente di influencer marketing, all’epoca si trattò di una delle prime azioni di guerrilla marketing, spericolata e incredibilmente efficace, capace, tra le altre cose, di imprimere un segno durevole sui costumi di un’intera generazione.

(Non sembra esserci, tra l’altro, alcun dubbio sulla buona fede dei protagonisti della vicenda: fu davvero una spontanea, gratuita dichiarazione d’amore di un gruppo rap per un Brand).

Circa un decennio più tardi una campagna mediatica, in perfetto stile guerrilla, usa internet in un modo che oggi diremmo “disruptive” e costruisce un incredibile successo commerciale utilizzando i video per alimentare il cortocircuito tra realtà e finzione. Secondo il sito di approfondimento Movieplayer: fu “una campagna pubblicitaria geniale e memorabile che ha cambiato radicalmente la comunicazione cinematografica”.

The Blair Witch Project

Poche parole disperate, di scusa, su uno sfondo completamente nero. Poi un montaggio di materiali d’archivio, con in sottofondo il commento inquietante di un giornalista televisivo e quindi l’inquadratura ravvicinatissima della faccia di una ragazza spaventata. Dietro di lei si intuisce una notte buia e immobile. Si apre così il trailer di The Blair Witch Project (1999), il film horror indipendente che per la modalità di promozione viene citato spesso come primo esempio di Guerrilla Marketing contemporaneo: un found footage horror che racconta la storia di tre giovani film maker improvvisamente scomparsi nel nulla nei boschi del Maryland mentre lavoravano a un progetto su una misteriosa strega.

I registi del film, insieme al dipartimento marketing della casa di produzione sviluppano una strategia mediatica assolutamente innovativa: contenuti digitali diventati virali in pochissimo tempo, eventi, manifesti, un sito web creato appositamente in cui consultare rapporti di polizia e ascoltare la testimonianza degli abitanti del luogo. Ancora oggi The Blair Witch Project figura tra i film a basso budget che hanno registrato il maggiore incasso al botteghino (248 milioni di dollari guadagnati a fronte di un costo di produzione di 60.000 dollari).

Come se la passa oggi il guerrilla marketing nell’era della digital transformation? Prima di fare il punto sull’attuale stato dell’arte e sulle prospettive future proviamo a chiarire alcuni aspetti, così da evitare visioni semplificatorie.

Guerrilla marketing: definizione, tattiche, equivoci

Una definizione

Torniamo alla nostra domanda di partenza: cos’è il Guerrilla marketing?

In una delle sue molte interviste Jay Conrad Levinson definisce il guerrilla marketing come l’insieme di tattiche non convenzionali utilizzate per raggiungere obiettivi convenzionali (su tutti: il profitto) con piccoli budget a disposizione. Il guerrillero ha bisogno solo di tre cose: “tempo, energia, immaginazione”. Al là di alcune formule romantiche, bizzarre o velleitarie, la teoria di Levinson procede per massime fulminanti, traducibili in altrettante domande, che delineano una strategia piuttosto sofisticata, ben radicata nei principali assunti del marketing tradizionale:

Le tattiche più popolari

Nel tentativo di costruire una tassonomia del guerrilla marketing, sono state individuate tredici tattiche particolarmente popolari. L’elenco non ha, evidentemente, alcuna pretesa di essere completo o definitivo.

  1. Word-of-Mouth (inventando pettegolezzi strategici o “segreti”)
  2. Hand-to-Hand (la condivisione fisica e intima dei prodotti)
  3. Graffiti e Reverse graffiti (quest’ultimo utilizza superfici sporche o rovinate)
  4. Stealth (posizionamenti di prodotti che le persone non notano)
  5. Ambush (“agguato”, dirottamento dell’esposizione di grandi eventi organizzati dai competitors)
  6. Flash Mob (gruppi di persone che compiono un atto insolito o apparentemente casuale, prima di disperdersi all’improvviso, così come si sono formati)
  7. Esperienziale (esperienza immersiva in prodotti e servizi)
  8. Poster o Stickers (a volte criptici, spesso molto numerosi, in posizioni strategiche)
  9. Proiezioni (per esempio su edifici, possono talvolta essere illegali)
  10. Waiting Marketing (dove i destinatari sono in attesa di qualcosa, per esempio di un autobus)
  11. Treasure Hunts (seminando indizi che creano un senso di intrigo)
  12. Grassroots (rivolto agli appassionati di Brand che condivideranno il tuo messaggio ovunque)
  13. Ambient (posizionamenti inaspettati che incoraggiano i passanti a fermarsi e pensare)

Gli equivoci: quale visibilità?

Le definizioni non sono finite. In tanti si sono chiesti cos’è il Guerrilla marketing e hanno provato a rispondere a questa domanda.

Nelle prime pagine della quarta edizione (inglese) del suo libro, Levinson scrive: “guerrilla marketing è la verità resa affascinante, e tutti sappiamo che il marketing ordinario non riguarda né la verità né la rende affascinante. Guerrilla marketing è la chance di insegnare ai tuoi prospect e ai tuoi clienti come raggiungere il successo, indipendentemente dai loro obiettivi. Il guerrilla marketing è un circolo: inizia con la tua idea, che mira a generare profitti e prosegue grazie al supporto provvidenziale di clienti referral (clienti che suggeriscono a terzi di rivolgersi all’impresa per la qualità e le prestazioni dei suoi prodotti o servizi)” (fonte: Guerrilla Marketing, 1998).

Molto di più, quindi, di “tattiche di guerriglia”, dispiegate in quantità nella ricerca affannosa di un effetto sorpresa sempre più difficile da ottenere. Il guerrilla marketing più riuscito non si focalizza soltanto sull’unicità e la memorabilità della campagna ma anche e soprattutto sulla capacità, attraverso l’attivazione virale del passaparola (difficilmente prevedibile e praticamente incontrollabile) di creare e rafforzare nel tempo l’identità del Brand, andando ad agire a un livello più profondo, sulle abitudini di acquisto delle persone.

Andrea Frausin in una lunga intervista sul sito Inside Marketing si sofferma sugli equivoci del guerrilla marketing. In particolare, invita a riflettere sulla vera natura della visibilità che un Brand può guadagnare attraverso una o più di queste iniziative.

“Quanto questa visibilità spontanea e spontaneamente guadagnata è effettivamente utile nel lungo o medio periodo? Una singola azione di marketing – spiega Frausin – non è mai vero guerrilla marketing”, che dovrebbe invece sempre configurarsi come “un mix di azioni”.

 

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