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Fashion marketing: qual è la sua storia? Le aziende che operano nel settore della moda, che si tratti di lusso o fast fashion, sono ormai capaci di usare un mix di realtà fisica e realtà virtuale per progettare anche le esperienze d’acquisto più avanguardistiche da proporre ai loro pubblici di riferimento. Ma come si è arrivati fino a qui? Inauguriamo oggi una serie di articoli attraverso i quali ci incammineremo su quella lunga e appassionante strada che ha condotto il cosiddetto fashion marketing o “marketing delle moda” ad essere quello che è oggi: un “Paese delle meraviglie” ricchissimo, articolato e popolato da sognatori e creativi… molto pragmatici.

 

Dove siamo arrivati…

La trasformazione digitale, con lo sviluppo di tecniche sofisticate di analisi dei dati, ha consentito e allo stesso tempo determinato l’urgenza di strategie di marketing (e fashion marketing) sempre più customer-centric in grado di creare messaggi segmentati e mirati sui propri clienti. Ha reso le risposte delle aziende alle richieste del mercato più veloci e accurate, la loro reazione più focalizzata.

Basare le proprie decisioni su risultati prodotti da macchine che macinano algoritmi dà l’impressione, spesso confortata da evidenze statistiche, che i comportamenti fondati su modelli matematici siano più oggettivi, lungimiranti, addirittura predittivi. L’ultima frontiera, destinata a venire verosimilmente attraversata, sembra essere quella dell’intelligenza artificiale. Anche i brand del fashion, dai marchi più anticonvenzionali fino a quelli storici, partecipano inevitabilmente a questa stessa tendenza, rivoluzionando il fashion marketing.

 

Conosci la storia del fashion marketing? Te la raccontiamo in 10 pillole!

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L’Intelligenza Creativa Artificiale

Prendiamo ad esempio, Thought Experiments, software che impiega un particolare algoritmo, il GAN (Generative Adversarial Networks) per produrre la propria creazione visiva originale, mescolando e confrontando tra loro le immagini del set campione che gli viene somministrato.

È il primo tentativo riuscito di portare l’IA nelle immagini in movimento della moda. Nella presentazione del progetto sulla pagina Instagram di «Vogue Italia» si legge: “sebbene conseguenza di una struttura matematica, i risultati sono imprevedibili, casuali e astrattamente belli, proprio come una reazione chimica o la crescita di un fiore. Abbiamo permesso a una macchina di imparare a riconoscere la forma umana e l’abbigliamento indossato. Abbiamo permesso la creazione autonoma di un flusso organico di immagini, partendo da un pensiero razionale e finendo in un caos visivo ed esteticamente piacevole. Più che AI, sarebbe meglio chiamarlo ACI: Intelligenza creativa artificiale”.

 

La fortezza moda espugnata dai barbari digitali

Non potremmo intuirlo se ci limitassimo a guardare l’incredibile varietà di strumenti utilizzati oggi dalle aziende di moda per comunicare identità, stile e prodotti – una profusione di formati pubblicitari display, mobile, video, premium, veicolati da un sistema di media in continua espansione – ma il fashion marketing social, data-driven, immersivo e interattivo –, che sfrutta oggi le tecnologie di ultima generazione per raggiungere i propri consumatori, ha inizialmente opposto una fiera resistenza alla democratizzazione della moda prodotta dall’avvento delle nuove tecnologie. È stato infatti uno degli ultimi baluardi di un approccio conservatore che ha portato con sé, per anni, comportamenti respingenti se non addirittura ostili sia rispetto a touchpoint digitali, come i blog ideati da outsider (un esempio per tutti: l’ostracismo a cui è stato sottoposto The Blog Salad di Chiara Ferragni) sia rispetto al linguaggio e ai protagonisti dei principali social network.

 

…da dove siamo venuti

In periodi storici in cui le condizioni di produzione e distribuzione di abiti e accessori non erano neanche lontanamente paragonabili a quelle che conosciamo oggi – che sono tipiche della società dei consumi nata dalla Rivoluzione industriale – molto prima quindi delle riviste, prima delle sfilate, prima di Instagram, quel sistema complesso, economico, sociale, simbolico che noi indichiamo con il termine moda ha trovato il modo di utilizzare i media a disposizione per attirare l’attenzione dei pochi che potevano disporre delle risorse necessarie ad acquistare abbigliamento confezionato.

Anche con un target inevitabilmente ristretto e mezzi di comunicazione e logistici limitati, il processo era quello, in forma semplificata, su cui poggia il marketing contemporaneo: si trattava comunque, anche in quei contesti come ai nostri giorni, di creare una domanda, qualificarla e fidelizzarla. L’obiettivo è sempre stato lo stesso e per raggiungerlo il marketing della moda si è dovuto continuamente evolvere, passando dalle traveling dolls (bambole in viaggio) ai figurini di moda alle prime riviste di stile, fino alle app e agli annunci online personalizzati.

 

1. Pandoras: le bambole viaggianti

Per 400 anni, i nobili che volevano essere aggiornati sugli ultimi stili di abbigliamento – a cui si aggiunse in seguito l’alta borghesia – poterono  fare quasi esclusivo affidamento sulle Pandora,  bambole di moda capaci di attraversare tempo e spazio, dalle corti del Rinascimento italiane fino alle splendide stanze di Versailles. La produzione sistematica delle bambole Pandora viene tradizionalmente attribuita a Marie-Jeanne Rose Bertin (vissuta a cavallo di due epoche: tra gli splendori dell’Ancien Régime e il mondo nuovo inaugurato dalla Rivoluzione francese) universalmente conosciuta come una delle primissime creatrici di moda francesi, che fu al servizio di quella incredibile trend setter ante litteram che fu la regina Maria Antonietta.

I Manichini in miniatura avevano le fattezze del signore, o ancor di più della signora, da cui il sarto aveva ricevuto l’importante commissione. Indossavano costumi dettagliati, meticolosamente riprodotti per fornire un modello fedele, in scala, ai modisti delle altre corti. I sarti potevano così copiare la fattura dei vestiti, recuperare le sete più in voga, riprodurre gli elaborati copricapi del XV secolo e le silhouette in stile impero della fine del Settecento. Queste bambole viaggiavano moltissimo: da Parigi a Londra fino a New York, attraversando oceani e oltrepassando le linee nemiche grazie a lasciapassare diplomatici riconosciuti tra gli Stati guerreggianti, per garantire a clienti potenti ed esigenti tutto il necessario per essere “alla moda”.

Sono il primo esempio di fashion marketing.

 

 2. I figurini di moda: dalle incisioni alle fotografie

Insieme alle Pandora anche i figurini hanno origini antiche, potremmo quasi definirli come illustrazioni di moda allo stato embrionale. Un fashion plate, il nostro figurino di moda, è un ritratto in costume che illustra nei dettagli lo stile di abbigliamento più appropriato rispetto a specifiche circostanze. È anche un modello sulla base del quale realizzare creazioni simili a quella raffigurata.

 

Le origini

Secondo John L. Nevinson (studioso del costume con un passato presso il  Victoria and Albert Museum di Londra), l’illustrazione di moda inizierebbe tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo e in origine sarebbe servita soprattutto a far conoscere l’identità di una persona non attraverso i suoi tratti fisionomici individuali, ma piuttosto attraverso il suo caratteristico vestito. Secondo quanto sostiene Nevison nel suo trattato, l’interesse per l’abbigliamento alla moda risalirebbe – il condizionale è d’obbligo – almeno al XVI secolo. A dimostrazione di questa tesi cita alcuni stralci di un dialogo tra Alessandro Piccolomini, arcivescovo di Patrasso, e Papa Pio I. Scrivendo sotto lo pseudonimo di “Stordito” Piccolomini elencava tra le “esigenze dell’abito alla moda” la sontuosità nei materiali, il buon gusto nello stile e la grazia nell’indossarlo. Le funzioni principali erano quindi esteriori ma non per questo prive di sostanza: attirare l’attenzione, definire la posizione sociale, mostrare la propria professione. È presente in questa definizione una densità di informazioni rivelatrice della capacità promozionale dell’illustrazione: il figurino era già uno strumento potentissimo di seduzione.

L’inizio dell’illustrazione di moda si trova dunque nei ritratti, i più antichi, scolpiti o dipinti, si svilupparono da immagini di re e personaggi importanti. Sebbene i primi pittori del Rinascimento italiano abbiano cristallizzato in opere immortali il decorativo e l’esotico, i loro ritratti di individui consistevano principalmente in teste e busti ed erano, forse, sempre secondo Nevinson, non del tutto significativi per quanto riguarda i vestiti, da un punto di vista squisitamente descrittivo. Furono i ritrattisti tedeschi, tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI secolo, che registrarono e diffusero la moda degli abiti dei loro soggetti, dandole dignità e risonanza.

 

Fashion marketing alla corte del Re Sole

Dopo un periodo di incubazione, quindi, i figurini di moda entrarono trionfalmente in scena. Era l’ultimo scorcio del XVII secolo, durante il regno di Luigi XIV di Francia, nella corte in cui nasce la moderna industria della moda. I nobili di tutto il Paese erano concentrati a Versailles, tenuti lontani dai loro castelli e dalle loro tenute da un re che pretendeva che i suoi rivali gli rimanessero vicino, e costretti a dimostrare ricchezza e status esclusivamente attraverso la magnificenza del loro abbigliamento. È in questo particolare frangente, con una corte popolata da aristocratici annoiati e ansiosi di affermare la propria posizione sociale a colpi di parrucche cotonate e merletti, che la moda comincia a identificarsi con lo stile generale di abbigliamento appropriato per una determinata persona, in una determinata ora del giorno, in un’occasione speciale o per uno scopo specifico.

Per i successivi duecento anni, i figurini furono il principale metodo di fashion marketing, specialmente durante il regno di Maria Antonietta nella Francia del Diciottesimo secolo. Come in una sorta di blog la moda di corte veniva copiata per i posteri – catturata in un disegno, incisa sul legno, stampata per rappresentare gli ultimi progressi in fatto di stile.

Ai fini del nostro discorso è importante sottolineare come il figurino abbia giocato un importante ruolo nel sistema comunicativo e potremmo dire “pubblicitario” di differenti epoche, capace com’era di restituire un effetto di realtà e di incorporare significati sociali anche molto complessi. Non immortalava un individuo “fotografato” nella sua unicità di persona e non era solo un ritratto in costume, ma trasferiva un senso generale e portava con sé un valore prescrittivo e probabilistico: mostrando una certa tipologia di vestiti effettivamente indossati o che probabilmente lo sarebbero stati, definiva la buona norma a cui uniformarsi.

 

Un eccezionale strumento di vendita

Generalizzato eppure incredibilmente vario nelle sue infinite combinazioni di materiali, tagli, ornamenti, il figurino poteva essere imitato da un sarto e finire in vendita in un negozio. Legato invincibilmente all’usura del tempo, destinato ad essere sorpassato dalla storia dell’abito, il figurino veniva riprodotto meccanicamente: dapprima fu inciso sul legno, stampato su carta e colorato a mano, poi venne impresso con procedimenti litografici. Ai nostri giorni è ottenuto attraverso processi fotografici e anche nella versione patinata o pixelata conserva tutta la sua capacità di accendere i desideri e incanalarli in funnel sempre più complicati, confermandosi un eccezionale strumento da inserire nei processi di vendita, anche quelli più sofisticati.

 

3. Le boutique: attirare l’attenzione, di passaggio

La presenza sempre più estesa dei figurini di moda condusse a un punto di svolta in fatto di creazione sartoriale: in pieno Settecento alcune marchandes de mode non si limitarono più a usare le loro botteghe come luogo per fare commercio di stoffe e nastri ma si lanciarono in vere e proprie avventure imprenditoriali. Basandosi sulla guida sicura e rodata dei figurini, che venivano venduti dietro abbonamento in raccolte chiamate “cahiers”, sarte (ma anche sarti), modiste e proprietarie di piccole attività, arrivarono a sperimentare nuove decorazioni sulla base del loro gusto e della loro inventiva.

La più famosa di queste stiliste, già citata in precedenza, fu Rose Bertin, “ministra della moda” alla corte di Luigi XVI di Francia, come la chiamavano ufficiosamente i contemporanei, un po’ per scherno, un po’ con ammirazione. La sua boutique Le Grand Mogul dava su una frenetica strada parigina, e le sue ampie vetrate creavano una quinta scenografica, in cui gli abiti erano esposti ad arte, con lo scopo di attirare potenziali acquirenti.

Le boutique diffusero l’attenzione per il “ben vestire” anche tra la neonata classe media. È l’alba della moda così come la conosciamo nei suoi due tratti distintivi: la “stagionalità” e la ricerca costante della novità. E sicuramente del fashion marketing.

 

Conosci la storia del fashion marketing? Te la raccontiamo in 10 pillole!

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Alle origini del fashion marketing: cosa hanno in comune le Pandora, i figurini e le boutique?

Parlando delle origini del fashion marketing: cosa hanno in comune le bambole Pandora, libere di oltrepassare i confini anche in tempo di guerra; i figurini, antesignani dell’illustrazione di moda, giunti fino a noi intatti nel loro essere proiezione di ruoli, aspettative, aspirazioni e infine le boutique, con le loro vetrine agghindate per catturare l’occhiata, più o meno distratta, dei passanti?

La risposta è che possono essere tutti considerati dei format per la promozione e la vendita, oggetti comunicativi che nel corso del tempo si sono arricchiti di nuove funzionalità e potenzialità. La tendenza che li accomuna è quella che attraversa il marketing più evoluto: il tentativo di decifrare i segnali del contesto per raggiungere nel modo più rapido e preciso i consumatori. I prodromi di future strategie customer-centric?

 

Il monologo del maglioncino ceruleo, ovvero: That’s Marketing, Baby

“Oh, ma certo, ho capito: tu pensi che questo non abbia nulla a che vedere con te. Tu apri il tuo armadio e scegli, non lo so, quel maglioncino azzurro infeltrito per esempio, perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso, ma quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo, e sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar de la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee e poi è stato Yves Saint Laurent se non sbaglio a proporre delle giacche militari color ceruleo. […] E poi il ceruleo è rapidamente comparso nelle collezioni di otto diversi stilisti. Dopodiché è arrivato a poco a poco nei grandi magazzini e alla fine si è infiltrato in qualche tragico angolo casual, dove tu evidentemente l’hai pescato nel cesto delle occasioni, tuttavia quell’azzurro rappresenta milioni di dollari e innumerevoli posti di lavoro, e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori delle proposte della moda quindi, in effetti, indossi un golfino che è stato selezionato per te dalle persone qui presenti… in mezzo a una pila di roba.”

Il monologo del maglioncino ceruleo (elle.com) è una delle sequenze cinematografiche più memizzate della storia del cinema. Un frammento di sceneggiatura usato con ironia per ridicolizzare gli atteggiamenti snob e superficiali (e ignoranti: di chi non sa, ignora) che gli utenti dei social ostentano spesso rispetto agli argomenti più vari. Ma in principio, ne Il diavolo veste Prada, film campione di incassi da cui il monologo è tratto, si parlava di moda e del complesso di superiorità di una aspirante giornalista che proprio da lì, da una reprimenda che è al tempo stesso trattato sociologico sul merchandising e inno alla creatività degli stilisti, inizia a mettere in discussione le sue granitiche certezze, e a guardare in modo diverso al “mondo della moda” e delle sue riviste.

La verità è che “un milione di ragazze ucciderebbe” per lavorare nella redazione di «Runway», il magazine che Miranda-Anna (Meryl Streep) dirige con pugno di ferro e che Andy, questo è il nome della nuova assistente impersonata da Anna Hathaway, respinge per principio.

 

Una lezione di fashion marketing illuminato: scelte di acquisto e strategie di comunicazione

Ad Andy l’algida e potentissima Miranda dà una lezione che di fatto sta alla base del fashion marketing più illuminato: le dimostra con una sorta di inarrestabile flusso di coscienza che anche lei, con la sua scintillante corazza di convinzioni – e convenzioni – intellettuali è in realtà immersa in un sistema semiotico, sociale ed economico dall’enorme ricchezza di sfumature: il sistema moda. Il monologo, aggiunto alla sceneggiatura su insistenza di Streep, inanella una serie di affermazioni fattuali e una invincibile catena causa-effetto, e dimostra come tutti, a meno che non si sia deciso per uno stile di vita autenticamente monacale, finiamo in fondo per subire le scelte di quelle persone che (come Miranda) non solo decidono quali brand e quali oggetti promuovere ma anche in che modo, in quali luoghi, in quali periodi dell’anno.

In realtà, grazie alle nuove possibilità offerte dal digitale il flusso di comunicazione azienda-media-consumatore non è più univoco e imposto ma noi compratori partecipiamo a quelle scelte grazie a possibilità di interazione prima insperate. Ma la sostanza, per quanto trasformata considerevolmente con l’avvento della digital transformation, non cambia: proprio come accade a ciascuno di noi, quando Andy compra un vestito, un paio di scarpe, un maglioncino ceruleo, sta esercitando la propria libertà di consumatore all’interno di un funnel che altri hanno progettato per lei. Un funnel sempre più ramificato e multidimensionale (tanto che oggi si chiama Consumer’s Journey, con molta enfasi sul Consumer) ma comunque un percorso immaginato per lei dalle Miranda della moda, vale a dire dalle persone del marketing.

Ai fini del nostro discorso ricordare il monologo del maglioncino ceruleo ci serve per due motivi:

  • per ricondurre le scelte di acquisto dei consumatori alle strategie di comunicazione, promozione e vendita delle case di moda (le Firme);
  • per introdurre quegli incredibili veicoli di brand awareness che sono – e sono state fin dalla loro comparsa – le riviste di moda, da più di duecento anni formidabili touchpoint e dispositivi mitopoietici dell’immaginario fashion.

 

Vogue Italia e l’insostenibile “leggerezza” del fashion content

In piena emergenza coronavirus, durante il tanto atteso momento di ripartenza per l’economia del Paese, esce in edicola e online il nuovo numero di «Vogue Italia» (aprile 2020). Non è un issue come gli altri, per una serie di motivi. Il primo, più evidente, è che la copertina è completamente bianca. Gli altri motivi, struggenti perché scritti con sincera partecipazione, si possono leggere nel post pubblicato sull’account Instagram del magazine:

“Nella sua lunga storia, che risale a più di cento anni fa, «Vogue» ha attraversato guerre, crisi, atti di terrorismo. La sua tradizione più nobile non è mai stata guardare dall’altra parte. Poco meno di due settimane fa, stavamo per stampare un numero pianificato da tempo e che aveva coinvolto anche «L’Uomo Vogue» in un progetto gemello. Ma parlare di qualsiasi altra cosa – mentre le persone muoiono, i medici e le infermiere rischiano la vita e il mondo sta cambiando per sempre – non è, semplicemente, nel DNA di «Vogue Italia». Di conseguenza, abbiamo accantonato il nostro progetto e ricominciato da zero. La decisione di stampare una copertina completamente bianca per la prima volta nella nostra storia non è dovuta alla mancanza di immagini, al contrario. Abbiamo scelto il bianco perché significa molte cose allo stesso tempo. Il bianco è innanzitutto rispetto. Il bianco è rinascita, la luce dopo l’oscurità, la somma di tutti i colori. Il bianco è il colore delle uniformi indossate da coloro che mettono la propria vita in prima linea per salvare la nostra. Rappresenta lo spazio e il tempo per pensare, oltre al silenzio doveroso. Il bianco è per coloro che riempiono questo tempo e spazio vuoto di idee, pensieri, storie, versi, musica e cura verso altri. Il bianco ricorda quando, dopo la crisi del 1929, questo colore immacolato è stato adottato per i vestiti come espressione di purezza nel presente e di speranza nel futuro. Soprattutto: il bianco non è arrendersi, ma un foglio immacolato che attende di essere scritto, il frontespizio di una nuova storia che sta per iniziare.”

«Vogue Italia» non è nuova a questa capacità di contaminazione tra contenuti di cronaca, temi di rilevanza sociale ed esigenze dell’industria. La sua direttrice più celebre, Franca Sozzani, lo ha guidato dal 1988 fino alla sua morte, avvenuta nel 2016, con energia, creatività e spirito anticonvenzionale: Caos e Creation, dal titolo del documentario che le è stato dedicato.

Nel luglio 2008 usciva The Black Issue «Vogue Italia», un’edizione speciale in cui sulle diverse copertine e in tutti gli shooting comparivano esclusivamente modelle di colore e creazioni di designer africani, immortalate dal fotografo Steven Meisel. Tra le protagoniste, top model leggendarie: Naomi Campbell, Liya Kebede, Jourdan Dunn, Sessilee Lopez, Tyra Banks, Chanel Iman. Anche in questo caso Sozzani si rivolgeva direttamente al suo “ambiente”, al jet-set internazionale della moda, e allo stesso tempo chiamava in causa l’opinione pubblica generalista: perché così poche modelle nere in passerella?

Franca Sozzani, con il suo «Vogue Italia», rimasto coerente nel tempo per taglio e dichiarazione di intenti, non ha confinato le sue modelle e i suoi abiti dentro le gabbie dorate di un mondo puramente fittizio, li ha spinti fuori dalle pagine, incontro a realtà contraddittorie, chiaroscurali, complicate, dando spesso luogo a dibattiti che hanno travalicato i confini “di genere”, contribuendo a smentire l’autoreferenzialità della narrazione del fashion.

Il caso «Vogue Italia» è un esempio tra tanti che sottolinea una volta ancora come nel comparto teoricamente più fatuo di tutti, le famigerate riviste per signore siano contraddistinte da una notevole consistenza e stratificazione di valori.

 

Riviste per signore: strumento di informazione e oggetto di comunicazione

Le origini delle riviste di moda (o “femminili”) viene raccontata attraverso un aneddoto, che al di là della dubbia accuratezza storica rivela un certo gusto per lo storytelling decisamente vivo anche nel fashion dei nostri giorni: come iniziativa di auto-promozione Maria Antonietta avrebbe incoraggiato Marie-Jeanne Rose Bertin, una delle primissime creatrici di moda francesi e il parrucchiere-artista Leonard Autié, a rivelare i dettagli del suo abbigliamento e della sua acconciatura al quotidiano femminile «Le Journal des dames» (che iniziò le pubblicazioni nel 1759). Come una influencer contemporanea, anche la regina voleva che il suo nome e la sua immagine fossero associate al buon gusto, allo stile, alla quintessenza della moda e consegnate così, intatte e controllate, alle pagine dei giornali.

Con l’espansione della classe media nel XIX secolo, la rivista femminile diviene sempre più popolare: realizzata su misura per un target particolare, è ricca di gossip sulle principali casate reali europee, schemi di ricamo, fiction serializzata e molto altro ancora.

Negli Stati Uniti «Godey’s Lady’s Book» viene lanciato a Filadelfia nel 1830 e raggiunge una diffusione di 150.000 copie stampate al mese. Ogni numero presentava opere letterarie, ricette di cucina a colori e una sezione chiamata “Dipartimento del Lavoro”, con pattern per cucire, lavorare a maglia e uncinetto. In UK, nel 1852, è la volta della «Rivista domestica inglese», un periodico mirato specificamente alla casalinga della classe media. Le sue pagine erano incentrate su artigianato, cucina e vestiti, e in seguito presero a includere un modello di carta in ogni numero, in modo che le donne potessero realizzare la propria versione degli ultimi stili.

Compaiono attorno a questo periodo i primi veri e propri commercial: pubblicati tra brevi news, ricette e consigli domestici fanno capolino annunci promozionali che reclamizzano guanti, pantofole, corsetti e macchine da cucire, insieme a dentifrici e scarpe di vernice.

All’interno delle riviste per signore sono presenti materiali che servivano concretamente alla realizzazione di ricami, confezioni, perfino abiti. Un invito ad attività che erano concepite come eminentemente femminili. I modelli di carta fanno così la loro comparsa integrandosi perfettamente in questa filosofia di “operosità gentile”. Insieme all’invenzione della macchina da cucire finiranno ben presto per diventare altro e creeranno una provvidenziale via d’uscita, che dalle mura domestiche proietterà le sue lettrici fuori, nel mondo. Questa dei modelli di carta è però un’altra storia, un’altra piccola storia del marketing della moda che racconteremo nel prossimo articolo. Per adesso, torniamo alle riviste. E in Italia?

 

La rivista per signore in Italia: «Il corriere delle Dame»

È a Milano, alla fine del Settecento, che nasce il giornalismo di moda in Italia. Le prime pubblicazioni presero ispirazione dall’illustre rivista francese già citata «Le Journal des dames» poi ribattezzato «Le Journal des dames et des Modes». Dopo il «Giornale delle nuove mode di Francia e d’Inghilterra» (Milano, 1786-1794) e «La donna elegante ed erudita» (Venezia, 1786-1788), che proponevano alle loro lettrici bozzetti raffiguranti mode estere e brevi, brevissimi articoli, viene pubblicato a Milano, sotto la dominazione di Napoleone Bonaparte quello che sarà il periodico di moda destinato ad avere maggior successo: «Il Corriere delle dame» (1804).

Nella Milano napoleonica il ruolo delle donne sta cambiando: sono per la prima volta protagoniste di esperimenti legislativi d’inclusione sociale e d’istruzione. Collegi pubblici e “salotti culturali”, sono spazi finalmente accessibili anche alle figlie di aristocratici e di ricchi borghesi. È in questo contesto che inizia le pubblicazioni «Il Corriere delle dame. Giornale di mode, letteratura, belle arti, teatri e notizie politiche», un settimanale dal formato snello che continuerà a essere stampato fino al 1875. In allegato al giornale ci sono incisioni in rame acquerellate di figurini di moda descritti poi nella rubrica dedicata. Abbigliamento e accessori dal 1806 cominciano ad essere venduti per corrispondenza e la fama e la sopravvivenza della rivista vengono garantite dalle entrate economiche derivanti dalle numerose inserzioni pubblicitarie.

In un suo articolo in noideonne.com, Fabiana Guarnieri racconta che se anche se l’argomento di punta è il culto del bell’apparire, la rivista comprende “articoli educativi e morali, notizie sulle novità letterarie e sulla programmazione dei principali teatri milanesi, precetti, inserzioni didattiche, racconti, poesie, aneddoti, giochi enigmistici, informazioni igienico-sanitarie, di puericultura ed economia domestica, la corrispondenza dei lettori, pubblicità e articoli di politica sugli eventi più rilevanti in Italia e in Europa. Sulle sue pagine, assieme agli scritti poetici vengono pubblicati i contributi del dibattito intellettuale dei Neoclassici e Romantici, ma anche opere più recenti o straniere, di genere più leggero e d’intrattenimento. Importante è, inoltre, il Termometro politico, una rubrica che rende il giornale interessante anche ai lettori uomini e avvicina le donne a informazioni da sempre loro precluse”.

«Il Corriere delle dame», come molte delle altre riviste per signore del periodo, canalizza il forte bisogno di autonomia e di evasione di un pubblico femminile ancora scarso e frammentato ma emergente. È allo stesso tempo strumento d’informazione mirato che consente un allargamento della prospettiva sulla realtà e oggetto di comunicazione e marketing, da sfruttare per raggiungere obiettivi commerciali, che oggi diremmo di awareness, consideration e decision.

 

Le riviste per signore: fashion marketing in azione

Le riviste di moda non sono mai state, puramente, una questione di genere, neanche agli inizi, neanche quando ancora si chiamavano “per signore” o “delle dame”. E non sono mai state prive di contenuto ma hanno sempre testimoniato attraverso la progettazione di contenuti per un pubblico specifico l’adesione a precisi sistemi di valore, capaci di evolversi in un senso anche più progressista rispetto a ben più rispettabili organi di informazione e coinvolgendo in questa trasformazione anche i racconti dei Brand di cui erano portavoce.

Una volta di più: il fashion marketing in azione. Anzi, non potremmo forse dire, per questa loro qualità di contenitori di storie, che le riviste per signore sono a maggior ragione Inbound Marketing in azione?

 

I modelli di carta: nuovi vestiti per donne nuove

Madame Demorest è un personaggio che avrebbe tutte le carte in regola per diventare la protagonista di una miniserie Netflix: imprenditrice, modista di successo, esperta di marketing e inoltre colta rappresentante della borghesia americana più illuminata, convinta abolizionista e accesa sostenitrice dei diritti delle donne. Madame Demorest, nata Ellen Louise Curtis, ha avuto un impatto enorme sulla moda americana e sul modo in cui la moda stessa ha cominciato ad essere vestita, consumata, sperimentata. Ha costruito un impero pubblicizzando una vasta gamma di prodotti sulle riviste femminili (anche, a maggior ragione, sul periodico mensile da lei fondato), ha creato una linea di hoop skirt alla portata di tutte le tasche, ha inventato l’Imperial Dress Elevator, un abito la cui lunga gonna voluminosa era costruita con una serie di nastri “zavorrati” da un sistema di piccoli pesi, così che potesse essere discretamente sollevata e abbassata per evitare di sporcare l’orlo passeggiando lungo le strade fangose di New York.

Per un profilo completo di Demorest rimandiamo a questo articolo pubblicato sul sito del Museum of the City of New York. Quello per cui Demorest viene ricordata (e celebrata) e che a noi interessa mettere in evidenza, è la produzione in serie dei primi modelli di carta che, dalla metà del 1850, hanno reso l’alta moda accessibile anche alla classe media.

Modalità di produzione e distribuzione, prezzi contenuti, tipologia di annunci, tutto concorre a realizzare una strategia coerente per la costruzione della reputation dei prodotti Demorest, non ancora un marchio ma sicuramente un sistema comunicativo ben definito. Un ipertesto distintivo e notiziabile, da usare in tutte le sue declinazioni in azioni di inconsapevole guerrilla marketing: dai roboanti annunci stampa agganciati ad arte ai maggiori avvenimenti di cronaca ai public speech che diventano azioni di disturbo messe in scena per rompere gli equilibri dei paludati e conformisti club per soli uomini dell’imprenditoria americana.

Un’ultima osservazione sul punto di arrivo del funnel di Demorest: la sua consumatrice ideale è una Buyer Persona più immaginaria che realistica, un modello “aspirazionale” piuttosto che un fatto statistico: curiosa e attenta verso tutto ciò che è l’attualità dello stile (moda, arte, eventi) indipendente ed emancipata, la donna Demorest è spesso in viaggio ma vive in una città, ed è, inevitabilmente, benestante.

 

I cataloghi

Negli Stati Uniti la vendita per corrispondenza diventa davvero vantaggiosa soltanto dopo l’Homestead Act del 1862, che spinge i coloni a ovest, in un far west che diventa sempre più vicino per l’incedere inarrestabile del sistema ferroviario nazionale. Il catalogo Montgomery Ward debutta nel 1872: è un singolo foglio di carta su cui fanno bella mostra 163 articoli. Venti anni dopo ne arriverà a vendere oltre 20.000, distribuiti su 540 pagine. Il catalogo Sears, Roebuck and Co. viene lanciato sul mercato qualche anno dopo, nel 1888. Erano opere mastodontiche che dovevano sicuramente richiedere competenze specifiche di impaginazione e stampa.

Questi cataloghi vendevano un po’ di tutto, dalle parrucche alle carrozzine, fino alle case prefabbricate a grandezza naturale, ma devono il loro successo travolgente soprattutto alla vendita di capi di abbigliamento: abiti e cappelli, gonne, cinture, camicette, biancheria intima, guanti, scarpe.

 

E il fashion marketing in Italia? Postalmarket e La Rinascente

Veniamo al fashion marketing tutto italiano. Postalmarket è stata l’azienda italiana leader nazionale nella vendita per corrispondenza. Nata nel 1959 da un’idea dell’imprenditrice milanese Anna Bonomi Bolchini, cresce negli anni Sessanta e Settanta e nei suoi cataloghi trovano posto soprattutto i prodotti reclamizzati da Carosello. Dal 1980 affronta una serie di crisi fino alla dichiarazione di fallimento avvenuta nel 2015. Nei quasi cinquant’anni di attività raggiunge i 1400 dipendenti diretti, pubblicizza i vestiti di stilisti importanti, come Krizia, Coveri e Biagiotti e fa in tempo ad approdare su Internet con un e-commerce da 22.000 prodotti. Fra i vari testimonial (non ancora influencer) apparsi sulle pagine del catalogo vi furono, fra gli altri, personaggi dello spettacolo come Giorgio Gaber, Ombretta Colli e Lea Massari.

Prima di affermarsi come il grande magazzino che conosciamo tutti, la Rinascente è un progetto editoriale, anche piuttosto sofisticato, in cui l’esigenza della vendita per corrispondenza si accompagna sempre, fin dalle prime uscite, all’attenzione per la forma espressiva, bilanciando all’interno della griglia della pagina illustrazione d’autore e maestria tipografica.

 

I Grandi magazzini

Tre persone, solitamente donne, corrono forsennate su e giù per imponenti scale di marmo e attraversano sale ampie e ben illuminate, arraffando vestiti, scarpe, accessori direttamente dalle grucce e dagli scaffali. È uno dei momenti ricorrenti di un popolare show in cui il protagonista assoluto, sineddoche per indicare l’intera esperienza dello shopping più sfrenato, è il grande magazzino, in questo caso di lusso. Un esempio di branded content per il fashion marketing che è al tempo stesso omaggio, citazione e celebrazione dell’acquisto in store. Nonostante l’e-commerce abbia guadagnato l’attenzione dei consumatori il negozio di abbigliamento fisico ha continuato ad essere un touching point molto frequentato. Di fatto, in anni recenti, la vendita al dettaglio tradizionale e la vendita al dettaglio online si sono sempre più fuse in un’unica esperienza di acquisto.

Apriamo qui una piccola, doverosa digressione: fino a qualche mese fa il driver principale dei retailer era l’impiego combinato delle piattaforme online e offline, in funzione di una migliore customer Experience. L’uso del passato imperfetto è d’obbligo: il rapporto tra consumatori e retail è inevitabilmente cambiato in conseguenza della pandemia di coronavirus. Sul modo in cui cambierà ancora, in termini di social distancing e di nuovi modelli di consumo, ci si comincia già ad interrogare e anche la composizione e le modalità di distribuzione del paniere moda saranno influenzate dalle disposizioni di legge e da una sensibilità presumibilmente trasformata.

Ma torniamo al topic dell’articolo. I capi di abbigliamento pronti da indossare (e non più da cucirsi in casa) diventano un gigantesco affare con l’affermarsi del concetto europeo di grande magazzino. Oltre a una maggiore standardizzazione delle taglie (si passa dalla moda su misura a quella prêt-à-porter) I rivenditori escogitano e mettono in pratica una serie di innovazioni di marketing puro:

  • il passaggio dalla contrattazione alla fissazione dei prezzi;
  • l’attenzione al servizio e all’esperienza di acquisto del cliente;
  • la creazione di un’immagine forte di marchio.

Se il concetto di negozio, articolato al suo interno in spazi destinati a differenti prodotti e a differenti target, proviene dalla vecchia Europa, è però negli Stati Uniti del XIX secolo che si trasforma nel Mall, il grande magazzino: gigantesco, labirintico e pieno di cose da comprare. Alexander Turney Stewart è l’imprenditore che nel 1848 a Broadway dà una forma precisa a questa cittadella dei desideri, introducendo alcune pratiche di marketing che entreranno tra le actions progettate dal centro direzionale (marketing e business) per lo store: stabilire prezzi fissi per gli articoli e organizzare promo e sfilate di moda.

I grandi magazzini di quello scorcio di secolo vendono quasi tutto, ma sono stati creati pensando alle donne della classe media, che per la prima volta hanno un posto pubblico “rispettabile” dove riunirsi. Questi empori in cui è impiegato quasi esclusivamente personale femminile cambiano la società: lo shopping diventa un passatempo accettabile e il tabù del lavoro fuori casa inizia a sgretolarsi. Mentre le donne vedono aumentare la loro possibilità di spesa, le pubblicità cominciano progressivamente a metterle a fuoco, a segmentarle.

 

Gli annunci stampa

Sul finire dell’Ottocento l’illustrazione di moda, iniziata con i figurini tanto tempo prima, è ormai divenuta, compiutamente, pubblicità. Fashion marketing a tutti gli effetti: volantini, manifesti, cartelloni pubblicitari, annunci stampa su giornali e riviste. Ogni inserzionista pretende sostanzialmente la stessa struttura narrativa e lo stesso tone-of-voice pervaso di paternalismo (e la situazione non cambierà fino almeno agli anni Sessanta del ’900): il consumatore ha un problema, magari crede di non averlo ma ce l’ha, e non può risolverlo da solo, perché non è uno specialista e, diciamocelo, anche perché è un po’ ignorante e sprovveduto. Gli servono quindi i prodotti, come nel più classico schema proppiano: saranno gli aiutanti magici che gli verranno in soccorso.

Fino al 1860 gli annunci sono in bianco e nero e hanno molto su testo, colonne su colonne di testo scritte fitte: offrono molte informazioni e danno poca importanza al layout visivo. Con l’introduzione di più raffinate tecniche di stampa anche la pubblicità diventa finalmente a colori, in una esplosione liberatoria che invade i giornali e i muri della città. Nasce anche il gusto per lo “slogan memorabile”.

Jules Chéret, pittore francese considerato il padre del manifesto moderno diffonde l’impiego della litografia con matrice in pietra per la stampa, che diventa così più semplice ed economica, ed eleva gli annunci a una forma d’arte vera e propria, con composizioni dinamiche e strati di pigmento luminoso. Dopo di lui altri artisti, del calibro di Henri de Toulouse-Lautrec e Alphonse Mucha, si cimenteranno nella pubblicità illustrata, anche di abbigliamento.

Di pari passo con la popolarizzazione del grande magazzino, gli annunci stampa si affermano come veicoli efficaci per una comunicazione della moda che usa ormai sistematicamente gli uni e gli altri per pubblicizzare non solo prodotti ma piuttosto stili di vita, da realizzare attraverso il consumo. Ogni stile di vita a cui gli abiti rimandano viene studiato, progettato e comunicato in modo sempre meno naïf dagli stilisti e dalle persone che lavorano per loro, cioè i marketer.

 

Il marchio nel fashion: Charles Frederick Worth

Il marchio più prestigioso, prima dell’affermazione graduale di quello che oggi chiamiamo Brand (con il suo corollario di visual identity, mission e vision) è stato quello di Charles Frederick Worth, secondo il Metropolitan Museum of Art il “primo couturier”. Dopo aver guadagnato una considerevole fortuna grazie alla vendita per corrispondenza, Worth fonda la sua House a Parigi, nel 1858, durante il Secondo Impero. Ci troviamo nella capitale del regno di Napoleone III, in un tempo di grandi cambiamenti. Parigi è un cantiere a cielo aperto in cui gli urbanisti più celebri dell’epoca lavorano per renderla il moderno gioiello della corona d’Europa.

Worth veste i parigini più illustri (compresa l’imperatrice Eugenia) disegnando per loro abiti sontuosi e orientaleggianti, secondo il gusto dell’epoca. Capovolge la relazione tra sarto e cliente, invertendo ordine e rapporti di potere: i clienti che erano soliti dare disposizioni, da Worth vanno per sapere che cosa è davvero di moda, affidandosi a lui fiduciosi.

Worth è probabilmente il primo a cucire sugli abiti etichette con il suo nome. Con questo gesto, che ha molto a che fare con la rivendicazione del suo diritto d’autore, si afferma materialmente la sostanza semiotica del marchio: il consumatore ne riconosce e apprezza l’identità visiva e di senso e la sua relazione con il marchio diventa più solida. In anticipo sugli altri Worth utilizza inoltre modelle dal vivo per mostrare le sue collezioni couture in movimento, spettacolarizzando un momento altrimenti poco dinamico. Progetta sia i guardaroba personali sia i costumi di scena per celebrità come l’attrice Sarah Bernhardt e la cantante Jenny Lind.

Siamo di fronte a un caso da manuale di personal branding perfettamente riuscito: Worth stesso, al di là del successo della sua maison, è una celebrità che appare nelle riviste di mezza Europa (e di mezza America).

 

La storia del fashion marketing: continuità e rivoluzione

La vicenda del fashion marketing che abbiamo fin qui raccontato sembra svilupparsi in modo tutto sommato fluido, apparentemente senza soluzioni di continuità. In realtà gli accadimenti storici più diversi – epidemie, guerre, crisi economiche, calamità naturali, scoperte scientifiche – ne avranno senz’altro condizionato il corso, determinando accelerazioni, rallentamenti, interruzioni.

Quello che conosciamo per certo, perché si tratta di passato recente, è che in un tempo molto più vicino al nostro si è verificato un vero e proprio terremoto. L’avvento della digitalizzazione, con l’affermazione di Internet prima e con la diffusione dei social network poi, ha determinato una profonda frattura culturale nella comunicazione per la moda.

 

Conosci la storia del fashion marketing? Te la raccontiamo in 10 pillole!

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