Articolo aggiornato al 30/06/2022

Le strategie di retail marketing online sono molteplici e molte sono considerate non convenzionali. Un cambio di prospettiva segna l’inesorabile ritorno del consumatore al centro delle decisioni del business: un processo graduale che inizia dopo la Seconda guerra mondiale, in una società dei consumi già matura (quella statunitense prima di tutto), e si perfeziona ogni giorno di più nei nuovi scenari creati dalla rivoluzione digitale.

Questo tipo di approccio customer-centric si riflette in un modello teorico fondamentale che adattandosi ai cambiamenti tecnologici, economici, culturali, è riuscito a conservare una notevole capacità esplicativa e trova ancora oggi ampio impiego: è il marketing mix, che testimonia sempre di più la presa di coscienza da parte del brand della propria subalternità rispetto al potere del consumatore.

In questo post concentreremo l’attenzione sul modo in cui gli elementi del marketing mix vengono interpretati all’interno di strategie non tradizionali, soffermandoci in particolare su quelle – prima fra tutte la personalizzazione – che nelle strategie di Retail marketing online stanno rendendo sempre più ricca e coinvolgente la customer experience.

 

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L’evoluzione del marketing mix: verso la personalizzazione

“The marketing Mix is the set of controllable variables that the firm can use to influence the buyer’s response” (Philip Kotler, Marketing Management).

Il marketing mix, nella sua versione originale, viene concepito come un paradigma company-centric e supply-side (organizzato attorno alla produzione e a supporto dell’offerta), che individua nelle famose 4P (product, price, place e promotion) gli strumenti chiave per la gestione aziendale da parte dei marketers. Studiosi e professionisti, fin dagli anni Settanta, hanno cominciato a mettere in discussione alcuni assunti alla base del modello, aggiungendo ulteriori “P” alle 4 esistenti oppure sostituendole con altrettante “C”.

 

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Dimensione storica e ragioni di una trasformazione

Il primo a descrivere il marketing executive come “mixer di ingredienti” è James Culliton:

“Un decisore, un artista — un mixer di ingredienti, che a volte segue una ricetta preparata da altri, a volte, mentre procede, prepara la propria ricetta, a volte adatta una ricetta agli ingredienti immediatamente disponibili, a volte sperimenta o inventa ingredienti che nessun altro ha provato” (James Culliton, 1948).

Neil H. Borden (professore emerito di Marketing and Advertising all’Harvard Business School) coglie l’intuizione del collega e conia l’espressione “marketing mix” utilizzandola in modo continuativo durante le sue lezioni universitarie fin dalla fine degli anni Quaranta e poi inserendola in un articolo pubblicato nel 1964. Il marketing mix di Borden include 12 elementi: pianificazione del prodotto, prezzo, brand, canali di distribuzione, vendita personale, pubblicità, promozioni, packaging, display, servizio, trattamento fisico, rilevazione ed analisi dei fatti.

È però McCarthy a introdurre la classificazione che sarà assunta come standard e verrà insegnata e studiata in tutto il mondo, cristallizzando il marketing mix in 4 memorabili “P” (1960), nella traduzione in italiano: prodotto, prezzo, luogo e promozione.

Il sistema di elementi individuato da McCarthy si rivela col tempo inadeguato a descrivere una realtà sempre più complessa e le tassonomie che provano ad aggiornarlo si moltiplicano. Qui riportiamo quella più citata (“7P”), rimandando alla lettura del paper Dawn of the digital age and the evolution of the marketing mix per avere un quadro più completo delle altre numerose classificazioni.

Una definizione estesa di marketing mix comprende allora anche: physical evidence (gli aspetti materiali del servizio di vendita), participants o people (partecipanti o persone) e processes (processi).

Dal brand al consumatore

In un articolo del 1990, Four P’s Passe; C-words Take Over, Bob Lauterborn si spinge ancora oltre nel tentativo di restituire una posizione di preminenza ai potenziali clienti e introduce le sue 4C (customer, cost, convenience, communication), che di fatto vanno a rimpiazzare le “P” della matrice originale.

  • Il prodotto lascia il posto al consumatore, che diventa il vero oggetto misterioso da indagare, con i suoi bisogni sedimentati e i desideri inespressi.
  • Lauterborn sostituisce il costo al prezzo, evidenziando l’inadeguatezza della categoria “prezzo” nel restituire la complessità dell’equazione con cui il consumatore arriva a prendere le sue decisioni di acquisto.
  • Il luogo, nell’era della smaterializzazione dell’esperienza di vendita, diventa inevitabilmente meno rilevante (anche se, come vedremo, questa affermazione va rivista alla luce di più recenti indagini, che restituiscono importanza al negozio fisico). Il modello inserisce al suo posto la convenienza, un parametro che riconfigura i processi di comunicazione, pagamento e consegna, cogliendo le specificità dello stile di vita e del consumo contemporanei, resi mutevoli per effetto delle trasformazioni strutturali causate dalle tecnologie digitali.
  • Infine, la promozione viene sostituita dalla comunicazione che rende conto, in modo più accurato, della natura dialogica del rapporto tra azienda e target di riferimento.

Il consumatore coincide, quindi, con il punto focale del marketing mix, in funzione del quale organizzare tutte le attività di vendita. Se le sue percezioni, debitamente registrate e categorizzate, determinano il valore del prodotto, allora l’obiettivo dell’azienda, cioè quello di massimizzare i profitti, passa necessariamente dal raggiungimento della soddisfazione del consumatore e dalla sua fidelizzazione.

Marketing mix e Customer’s Journey

Il tradizionale marketing mix assume la forma di un diverso, ampio e articolato, livello di ordinamento: in un mercato in cui il pubblico ha la possibilità e il “potere” di prendere decisioni istantanee e può contare su una ramificazione di canali progettati proprio per facilitare quei processi decisionali, avanzare in un’unica direzione, scandita da un elenco di elementi distinti e successivi (come succede anche nel modello più “espanso” di marketing mix), può impedire di cogliere la natura molteplice e transitoria della realtà che quegli elementi tentano di fissare.

Una soluzione sembra dunque essere quella di puntare sull’acquisizione di una sempre maggiore conoscenza del comportamento umano da analizzare pragmaticamente, con l’obiettivo di individuare le tendenze che quel comportamento genera.

I cambiamenti macroscopici che sono avvenuti nel marketing mix in seguito all’avvento dell’era digitale trovano una corrispondenza in un altro strumento teorico largamente utilizzato dagli addetti ai lavori: il marketing funnel, evolutosi nella forma circolare del customer journey e precisato nei tre step del buyer’s journey (awareness, consideration, decision).

Durante il journey una buyer persona procede, con andatura tendenzialmente progressiva ma non lineare, dalla scoperta di un bisogno fino all’individuazione del prodotto o servizio che deciderà di comprare. Le quattro C del modello di Lauterborn a cui abbiamo fatto cenno poco sopra “precipitano”, per così dire, nella vita reale: cost, convenience, communication indirizzano, influenzano e supportano le decisioni del customer durante l’ultimo stage del processo di acquisto. Non solo, ma si incarnano nelle forme visibili, tangibili (fisiche o virtuali) del negozio.

Il packaging, le dimensioni del prodotto, la segnaletica, le interazioni con i venditori, perfino la posizione degli scaffali sono tutte variabili che influenzano profondamente gli “ultimi” momenti nel viaggio di un consumatore. Allo stesso modo, un sito di e-commerce deve presentare un’architettura e un visual immediati, comprensibili, in cui gli obiettivi dell’utente siano costantemente a “portata di mano”: una UX poco chiara o addirittura respingente, che offre un’esperienza di navigazione labirintica o peggio ancora noiosa, può portare all’abbandono del carrello e ad alte frequenze di rimbalzo.

La fase di post-purchase prolunga il viaggio anche dopo l’acquisto, rappresentando un momento sempre più importante lato azienda, non solo in termini di targetizzazione (permette di ottenere informazioni preziose sui clienti acquisiti), ma anche per l’investimento in pratiche fidelizzanti che mirano a instaurare loyalty e a trasformare i clienti stessi in advocates: le persone sono chiamate a “condividere” i loro acquisti sui social network, a scrivere un blog, postare su Twitter, sulla propria pagina Facebook oppure su quella del marchio, per dare suggerimenti o anche evidenziare limiti: più autentica è la storia raccontata più essa contribuisce a una narrazione globale del brand percepita come autentica.

Strategie di retail marketing online: il viaggio del consumatore

Nel customer journey più percorsi sono possibili per giungere al retail: dalla visualizzazione di un annuncio in TV il consumatore potrebbe marciare spedito verso la cassa. Potrebbe però anche lasciarsi affascinare da un annuncio su un quotidiano cartaceo, quindi fare una ricerca su YouTube, leggere alcune recensioni e poi controllare Facebook per saperne di più di quello specifico brand.

Può anche accadere che un potenziale cliente attraversi tutti i passaggi della fase di valutazione, guardi con attenzione le pubblicità, confronti le promozioni su diversi canali, saltando da un media all’altro, consulti amici, legga innumerevoli online reviews ma poi decida che preferisce risparmiare e aspettare “tempi migliori” (forse arriva alla conclusione che quel prodotto o servizio non risolverà l’urgenza o non soddisferà il bisogno).

Questi esempi lasciano intuire che ci troviamo ormai in un contesto ROPO (ricerca online, acquisto offline). Recenti statistiche mostrano infatti come quasi 9 consumatori su 10 si documentino online prima di recarsi in negozio e, tra questi, il 58% usi lo smartphone direttamente nel negozio per cercare informazioni sullo specifico prodotto o servizio che intendono comprare.

Per riuscire a offrire ai consumatori esperienze in-store che siano coinvolgenti, oltre che utili e personali come quelle che consentono i canali online, è necessario combinare tutti i touchpoint disponibili per creare un percorso pertinente, percorso che può andare in entrambe le direzioni: l’esperienza ROPO viene definita reverse-showrooming o webrooming quando i consumatori guardano un prodotto in negozio e quindi cercano su Internet l’offerta migliore.

Un esempio di soluzione strategica che ribalta la logica ROPO potrebbe essere quella di un retailer fisico che mette a disposizione dei clienti un’app con cui scansionare gli articoli presenti sugli scaffali per recapitare in tempo reale offerte su misura dal valore proporzionale al punteggio accumulato sulla carta fedeltà.

In ogni caso, ci troviamo di fronte a una comunicazione bidirezionale, tipica del non-traditional marketing.

All’interno di un piano di marketing integrato, progettato in funzione della valorizzazione del momento “vendita al consumatore finale”, la prassi sembra essere diventata oggi quella di affiancare in misura sempre maggiore agli strumenti tradizionali strumenti non tradizionali, in grado di declinare i contenuti aziendali (istituzionali e di prodotto) su più format e nei diversi canali, utilizzando metodi conversazionali, che rendono il brand estremamente reattivo nell’accogliere e metabolizzare i feedback del target di riferimento.

Un’ulteriore precisazione: la strategie di marketing non tradizionali sembrano differenziarsi, come afferma Adweek, a seconda che ci si riferisca alla fase di consideration oppure a quella di decision, ai contenuti pubblicati in rete oppure a quelli implementati direttamente in-store: dalle raccomandazioni verso l’individualizzazione, la personalizzazione online ha a che vedere con i contenuti, mentre la personalizzazione in negozio riguarderebbe il customer’s journey. Non si tratterebbe più, quindi, di scrivere e scambiare consigli sui prodotti, quanto piuttosto di creare un’esperienza più rilevante per i consumatori, sia all’interno dell’ambiente del negozio, che in seguito, in altre circostanze, fisiche o virtuali, della loro vita quotidiana.

Phygital: la nuova frontiera del Retail marketing online

È stata coniata un’espressione per indicare questa commistione di pratiche digitali e contesti fisici: è la parola phygital che tiene uniti in un’ insolita composizione terminologica l’ambiente virtuale e quello analogico ed esprime il tentativo di ricomporre gli aspetti più significativi di entrambi in un’esperienza ricca e “completa”, nello spazio materiale dello store.

Phygital associa all’attenzione verso la multicanale la consapevolezza che il processo di acquisto del consumatore è fluido e per questo motivo può agganciarsi ad elementi online oppure offline e risolversi in qualsiasi momento.

L’utente naviga, acquista e, al di sopra e contemporaneamente, percepisce, sente, sperimenta; questo è il motivo per cui il 22% delle persone che intendono comprare un prodotto o servizio e fanno ricerche da mobile, preferiscono comunque concludere il proprio progetto di acquisto in un retailer brick-and-mortar. Le interazioni interpersonali continuano ad essere un elemento critico, il che implica che non può in alcun modo essere trascurata la componente fisica ed emotiva degli acquisti.

Phygital significa sviluppare, organizzare, contestualizzare gli elementi del marketing mix rispetto alle specifiche situazioni, online e offline, e alle esigenze del singolo retailer. La vendita al consumatore finale può essere progettata privilegiando alcune caratteristiche tipiche del digitale: come immediatezza, risorse immersive e velocità, potenziandone altre tipiche dello shopping in-store, come la comunicazione diretta e in compresenza e la possibilità di provare il prodotto, per così dire, in 3D.

Il Retail marketing sta cercando di trovare soluzioni ad hoc, attingendo creatività e competenze dal marketing non convenzionale (per esempio impiegando tecniche mutuate dal mondo del Guerrilla marketing) con cui superare la soglia critica della customizzazione (come quella permessa ai suoi shoppers, per esempio, da New Balance – online attraverso la piattaforma e offline nel chiosco interattivo del suo flagship store in Boston) e raggiungere una vera e propria iper-personalizzazione.

Anche Doxee, con Doxee Pvideo®, ha scelto da tempo di percorrere questa direzione, per andare incontro alle esigenze di utenti sempre più connessi.